La vernice rossa sulla statua di Antonio Baldissera e il cambio notturno del nome di via dell’Amba Aradam al grido “Smantelleremo i simboli del colonialismo nella Capitale” mi hanno fatto tornare in mente alcuni passi di un libro bellissimo in cui Alessandro Leogrande discuteva del valore che oggi hanno nelle nostre città monumenti come l’obelisco che, situato nei pressi di piazza dei Cinquecento a Roma, ricorda la strage di Dogali. Eretto in memoria di uno Stato che, appena finito di combattere contro i propri invasori, si era lanciato, fattosi invasore a sua volta, nell’avventura coloniale in Africa e il 26 gennaio 1887 aveva assistito impotente al massacro di circa 500 soldati in Eritrea per mano delle forze d’Etiopia.

L’obelisco, scrive Leogrande ne La frontiera (Feltrinelli, 2015), “sorge in mezzo agli alberi di via delle Terme di Diocleziano, tra la stazione Termini e piazza della Repubblica. Ci sarò passato davanti migliaia di volte, eppure non ci avevo mai fatto caso. (…)”. E come lui la maggior parte dei romani. Il problema è proprio questo: “La dimenticanza dell’Africa orientale italiana, del colonialismo e dei crimini del fascismo, dei massacri perpetrati in Somalia, Etiopia ed Eritrea, oltre che in Libia, è alla base del mito posticcio degli ‘italiani brava gente’. Come se solo gli italiani, a differenza degli altri popoli occidentali, non si fossero mai macchiati di efferatezze, stragi, torture…”. Quando, invece, l’Africa Orientale Italiana era stata messa insieme a furia di eccidi, perpetrati negli anni ’30 anche con l’uso di armi chimiche come l’iprite.

Con questo passato e con le relative responsabilità non abbiamo mai fatto i conti. Li abbiamo semplicemente rimossi. “Il paradosso – prosegue il giornalista, scomparso nel 2017 – è che la rimozione del passato coloniale riguarda esattamente quelle aree che a un certo punto hanno cominciato a rovesciare i propri figli verso l’Occidente”. Negli anni in cui lungo la rotta del Mediterraneo centrale arrivavano centinaia di migliaia di migranti, tra le nazionalità più rappresentate c’erano persone che scappavano dalle nostre ex colonie – l’Eritrea in primis – e lo facevano passando attraverso un altro Paese con cui abbiamo avuto molto, e molto continuiamo ad avere, a che fare: la Libia, dove Rodolfo Graziani era stato inviato dal duce nel 1931 per reprimere con deportazioni e internamenti le rivolte che ancora non si placavano, vent’anni dopo che Roma aveva messo piede nello “scatolone di sabbia” per farlo suo.

Ora, coprire i nomi delle strade, cambiarli, imbrattare e abbattere monumenti – per di più dedicando le gesta a “a George Floyd e a Bilal Ben Messaud, morto a Porto Empedocle il 20 maggio 2020 mentre cercava di raggiungere terra” – significa rimuovere ancora una volta quel passato e accettare definitivamente di non farci i conti, quando invece farlo sarebbe necessario per capire quanto avviene da anni nel Mare Nostrum. Cancellare non è un’operazione dettata dal coraggio, ma dalla paura. Dalla paura di vedere cosa siamo stati e cosa abbiamo fatto. Allora proviamo a rovesciare la prospettiva: le statue dei colonizzatori, i loro nomi sulle targhe delle strade, diventino un motivo: uno strumento per parlare di cosa è accaduto e ragionarne collettivamente.

Signori di “Restiamo umani”, avanzo una proposta: andate nelle scuole (magari portando con voi il libro di Leogrande) e proponete a presidi e professori visite guidate, portate insieme a loro i ragazzi a vedere quei monumenti e spiegatene il significato, raccontate a chi sono dedicati e proponete in questo modo il tema che immagino vogliate porre con le vostre azioni: che senso ha tenerli in piedi?

Io la mia risposta la do qui: lasciamoli dove sono perché ci aiutino ragionare di ciò che siamo stati, ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo oggi: divisi tra chi vuole tenere i porti chiusi in nome di un’emergenza che non esiste e chi invece vorrebbe provare a discutere del fenomeno delle migrazioni in maniera più complessa e argomentata, come merita di essere trattato se si vuole davvero tentare di immaginare una soluzione.

I conti con la storia si fanno discutendo di ciò che è accaduto. A imbrattare le statue, e a cercare visibilità, sono bravi tutti. A spiegare le cose affrontando la complessità della realtà, no. Restiamo umani, sempre. E pensanti.

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