“Il rischio che la curva possa risalire dobbiamo accettarlo altrimenti non potremo mai ripartire, dovremmo aspettare la scoperta e la distribuzione del vaccino ma non ce lo possiamo permettere”. Le dichiarazioni del premier Giuseppe Conte, che sanciscono la fine del confinamento, segnalano una buona cultura, qualità non affatto consueta tra la classe politica italiana. Parlare di rischio non è da tutti. Parlarne a ragion veduta, però, non è banale.

Nel mio ufficio, appesi 35 anni fa un poster di Tom Jenkins, dai colori forti, intitolato “Acceptable Risk”. Gli artisti spiegano certi concetti assai meglio degli studiosi. Lo avevo acquistato a Berkeley e, fino alla fine di febbraio 2020, sorvegliava ancora le mie giornate politecniche, che ora un po’ mi mancano.

Su rischio e affidabilità, scrissi: “Definire l’incapacità di un sistema di funzionare adeguatamente senza che si guasti non è un compito facile. […] Ogni decisione comporta una ulteriore incertezza nella definizione delle prestazioni e della sicurezza del sistema, così come nel giudizio dei decisori che deve bilanciare i potenziali benefici con i costi”. È un testo accademico di dodici anni fa, uno dei pochi libri di successo che abbia scritto, adottato a livello intermedio e avanzato in molti paesi del mondo: c’è perfino una edizione pirata in lingua cinese. Insomma, ogni decisione si basa su informazioni incerte che la statistica, meravigliosa scienza debole, non è sempre capace di ridurre a miti consigli.

Il concetto di rischio accettabile è molto vischioso. Facile applicarlo a infrastrutture come un ponte, a mezzi di trasporto come un camion, a imprese industriali o commerciali per iniziare a produrre o vendere mascherine, magari senza truffare lo Stato e beffare la comunità. Molte normative utilizzano i risultati della teoria dell’affidabilità per stabilire come ci si deve comportare in questi casi. A inizio stagione, uno sciatore agonistico può anche decidere che, se valuta la probabilità di rompersi una gamba nel corso della stagione in un 15 per cento, il rischio sia accettabile. Nei sistemi complessi le cose vanno peggio, soprattutto quando il fattore umano è fondamentale. Dati e modelli si prestano a manipolazioni enormi, sia inconsapevoli sia consapevoli. Senza il concetto di resilienza, “rischio accettabile” può diventare una parola vuota.

Molti anni fa, un aforisma di Gaylon Campbell mi colpì in modo particolare: “Nessuno crede ciecamente ai risultati di un modello, tranne il modellista. Tutto credono ciecamente ai dati, tranne chi li ha rilevati”. Gaylon S. Campbell non è un epidemiologo né un virologo, ma un più modesto idrologo che ha dedicato la vita a misurare come si muove l’acqua nei suoli insaturi. A fine carriera, ha fondato anche una importante società di sensoristica, con grande successo. Dati e modelli vanno presi con le pinze; e solo a fine anno 2020 avremo un primo dato abbastanza certo sulla mortalità della pandemia, confrontando la media dei decessi dell’ultimo lustro (2015-2019) con quella del 2020, al netto degli eventuali trasferimenti. E potremo farlo a scala continentale, nazionale, regionale e cittadina, giudicando così la gestione della pandemia da parte dei decisori e delle loro corti in base a un “accettabile” stato di conoscenza.

Nel corso di questa crisi, molta ricerca statistica tende ad aumentare la propria visibilità accademica. Pochi cercano di risolvere problemi pratici, banali ma utili. Un esempio: per aumentare la conoscenza sulla diffusione dell’epidemia, si possono adottare criteri statistici robusti per praticare un campionamento di massa? Un mio vecchio allievo mi inviò tempo fa la bozza di un ingegnoso sistema per aumentare di dieci volte, a parità di reagenti disponibili, il parco degli individui campionati senza perdere (troppa) informazione. Pur con un certo scetticismo, gli ho suggerito di inviarlo a chi doveva decidere. Non mi pare che qualche decisore ne abbia tratto ispirazione.

Vari modelli, basati su equazioni differenziali abbastanza semplici, parenti di quelle introdotte nel 1927 da Kermack e McKendrick, propongono curve di ogni foggia che i social diffondono senza alcun spirito critico. È senza dubbio per via della mia ignoranza, ma non ne conosco uno che abbia spiegato finora la complessità delle tre (per alcuni quattro) ondate della pandemia del 1918-1920 (vedi figura) né a che punto siamo – oggi nel mondo – rispetto a scenari simili. Sarò grato al lettore che me lo segnalerà. Né conosco modelli che abbiano finora spiegato, né previsto la diversa forza delle vie di propagazione del virus a scala locale, lungo le infrastrutture di trasporto e i nodi attrazione, conoscenze che avrebbero certamente migliorato le strategie di contenimento.

Un risultato certo, invece, riguarda la strategia di mitigazione. La via maestra sarebbe stata la cooperazione, non la competizione che l’umanità sta ciecamente seguendo, tra nazioni, tra regioni, tra città. “Il dato sorprendente è che la strategia cooperativa sarebbe la più efficace per ritardare l’evoluzione pandemica e per mitigarne l’impatto sulla popolazione dei paesi sia donatori che destinatari”, disse un fisico italiano di alto profilo scientifico, tra gli autori di uno studio internazionale di modellazione matematica quasi profetico: “Diffusione mondiale di una influenza pandemica: un caso di riferimento e l’intervento di contenimento”. Era l’anno domini 2007.

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