Il pagamento di un riscatto “appare una contraddizione” ma in un sequestro all’estero ” la trattativa diventa inevitabile“. Il pm Alberto Nobili, attuale coordinatore dell’antiterrorismo milanese, racconta al Corriere della Sera la sua visione su uno dei temi al centro del dibattito dopo la liberazione di Silvia Romano. Martedì il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha spiegato: “A me non risultano riscatti, altrimenti dovrei dirlo”. Secondo il magistrato, che ha aperto un’inchiesta sulle minacce ricevute dalla 24enne, per scoraggiare i sequestri bisognerebbe “spingere a livello internazionale sulla linea della compattezza nel non pagare mai. Ma, se questo sfiorasse l’utopia, occorrerebbe almeno che i vari Stati convergessero su protocolli di “cordone sanitario” attorno a categorie esposte come i cooperanti e che nel contempo però anche le Ong alzassero gli standard di preparazione dei propri inviati”. Al villaggio di Chakama in Kenya, Silvia Romano arriva appunto come cooperante. È da lì che comincia il suo racconto al magistrato Sergio Colaiocco e al colonnello del Ros Marco Rosi sui 18 mesi di prigionia: dal viaggio a piedi nella giungla dove “ero terrorizzata” fino alla lettura del Corano. Poi la comunicazione del carceriere: “Ti liberiamo“.

“La regola del blocco dei beni, e cioè il messaggio dello Stato che il sequestro non avrebbe più fruttato una lira, ebbe efficacia”, ricorda Nobili al Corriere parlando della linea dura in Italia. All’estero però è diverso: “Per realismo, in frastagliate situazioni estere come quelle descritte prima, nelle quali peraltro scoppierebbe il finimondo il giorno dopo che i rapitori non pagati facessero trovare la testa tagliata dell’ostaggio, è chiaro che lo Stato debba fare di tutto, riscatto compreso, per salvare un proprio concittadino”. Perché salvare la vita, sottolinea il magistrato, “resta sempre l’obiettivo primario”. E anche perché “è inutile mostrare i muscoli in contesti geostrategici dove non abbiamo possibilità di farli valere”.

Per evitare che si ripetano sequestri di questo tipo e conseguenti riscatti, Nobili promuove l’idea di “un accordo a livello internazionale nel quale gli Stati, almeno quelli occidentali, concordassero tutti assieme l’impegno a non pagare mai riscatti”. Utopia? “Se è così, sempre a livello interstatuale si dovrebbe almeno arrivare a una intesa su alcune condizioni minime di sicurezza dei cooperanti, una sorta di cintura di protezione”. Che coinvolga, spiega il magistrato, anche le ong: “Si assumano la responsabilità di assicurare sia una maggiore preparazione ai propri inviati, sia idonee garanzie a tutela della sicurezza del loro personale”.

Proprio dal villaggio di Chakama. in cui si trova con la onlus Africa Milele, comincia il racconto di Silvia Romano. Arrivano in quattro su due moto e la portano via. “Il viaggio nella giungla è stato tremendo. Le moto si sono rotte subito e quindi abbiamo continuato a piedi per un mese. Mi hanno tagliato i capelli perché dovevamo passare in mezzo ai rovi. Ero terrorizzata. Faceva caldo, ma poi la notte c’era freddo e dormivamo all’aperto”, è il ricordo della 24enne riportato dal Corriere della Sera. “Abbiamo dovuto attraversare un fiume. Il fango mi arrivava alla vita“, aggiunge.

Poi l’arrivo in una casa. Chiusa in una stanza con del pagliericcio per dormire, Silvia Romano chiede un quaderno per “tenere il tempo” e dei libri da leggere. “Mi davano da mangiare e non mi hanno mai trattata male”, conferma la volontaria. Per leggere le consegnano il Corano scritto in arabo e in italiano: è l’unico passatempo ed è così che comincia la conversione. Alla fine i carcerieri celebrano la shahada, la cerimonia per l’adesione all’islam. “Pregavo e guardavo video. Mi mettevano filmati su quello che accadeva fuori, li prendevano da Al Jazeera“, spiega Silvia Romano. Per mesi non vede nessuno, soltanto sei uomini che la tenevano prigioniera. Oltre a un dottore, venuto per curarla quando ha avuto la febbre.

I carcerieri le fanno girare anche tre video, davanti a un telefonino: recita sempre lo stesso copione. Poi arriva il giorno in cui uno degli uomini, quello che parla inglese, le dice “ti liberiamo“. “Mi ha fatto salire su un carretto trainato da un trattore. Sopra c’era un tavolo. Il viaggio è durato tre giorni e due notti”. All’appuntamento prestabilito Silvia Romano sale su un’altra macchina e arriva prima in un compound militare, poi all’ambasciata italiana a Mogadiscio. Chiede di mangiare una pizza e dice: “Continuerò a tenere il velo. Ne parlerò poi con mamma”.

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