Adesso, quando si discute della scuola, va molto di moda dire che si lavora agli scenari. Si potrebbe anche dire che, al momento, quelle che circolano sono solamente ipotesi, congetture ed illazioni, ma sono tutti termini con dentro troppa indeterminatezza. Gli scenari, invece, fanno subito teatro, e infatti mi pare che siamo abbastanza vicini alla farsa.

Intanto è ovvio che nessuno ha la più pallida idea di come fare le cose. Non “cosa” fare, quello è chiaro come il sole (distanziamento a prova di sociopatico, mai più classi affollate – che mi pare lo si dicesse da un po’ -, generosa distribuzione di eau de parfum igienizzante da abbinare alla crema corpo e crema mani, lavaggio dei banchi con il napalm), ma “come farlo”.

Leggevo l’altro giorno la proposta di qualcuno che avrebbe voluto le lezioni all’aperto. Ma che meraviglia. Sarò io che sono provinciale, ma da piemontese consapevole dei rigori nordici già mi vedevo a far lezione di letteratura en plein air. Certo, magari nelle ore di storia potrebbe essere un vantaggio schierare gli studenti in campo aperto, per meglio chiarire la struttura della falange macedone, tuttavia mi immagino che fatica debba essere tenerli a bada come un pastore maremmano quando calano quei nebbioni che manco il Milan degli anni d’oro in campo a Belgrado e non vedi da qui a lì.

E anche farsi sentire non deve essere uno scherzo, a meno che non ci forniscano di fischietto e megafono: in quel caso, se lo spazio aperto è vicino al centro abitato, tutto il circondario avrà modo di ascoltare le lezioni e senza neanche accendere il pc. Capace che la signora del caseggiato di fronte, mentre pulisce il balcone, ti faccia un domanda più intelligente della consueta “posso andare in bagno?”.

Ma lo scenario più probabile è quello dei doppi turni. Giornate di scuola di andata e di ritorno. Mezza classe davanti a me, pronta e sollecita ad ascoltarmi, e mezza classe a casa, pronta e sollecita davanti al pc. Ammesso che ce l’abbia. No, ma sul serio? Su di noi, ad aleggiare come un nume tutelare, una telecamera, di quelle che a governi alterni si vorrebbero mettere in classe, e voi non sapete le cose che inquadreranno, signore e signori.

Sì, quello che mangia e dorme nel lontanissimo ultimo banco è vostro figlio. Ammesso e non concesso che la suddetta telecamera funzioni, che inquadri solo me (a proposito: riaprono i parrucchieri? che qui la cosa si fa pressante) e che la connessione regga, io dovrei fare lezione in presenza accertandomi contemporaneamente che l’Assenteista sia davvero tra noi e non si sia limitato ad accendere il pc, disattivare il video, inserire il muto e girarsi dall’altra parte sotto al piumone, che l’Inafferrabile abbia capito quello che ho detto, visto che l’immagine è frizzata da un quarto d’ora e non lo vedo muoversi (oddio, starà bene? ragazzi mandategli un whatsapp), che la Pigiamata abbia svolto il compito e sia disposta a darne lettura ai compagni mentre il microfono gracchia, la voce si spezza e la metà classe presente e sparpagliata per l’aula semivuota si lamenta perché non capisce una mazzafionda.

I compiti che prima mi arrivavano in mille modalità, ma almeno tutte digitali, mi arriveranno metà cartacei e metà digitali: metà fogli protocollo e metà fotografie di fogli che mostrano stralci di tovaglie da cucina e scrivanie disordinate. Le verifiche si faranno due volte, perché altrimenti si aprirà una insanabile faida tra chi a casa ha potuto copiare il mondo e chi ha dovuto ingegnarsi con i soliti sistemi. Spiega a questi qua, controlla quelli là; dai l’esercizio a questi, rispondi a quegli altri. Contemporaneamente.

Bisogna dire che non era facile pensare ad una cosa così. In tanti anni ho visto chiedere ai docenti più preparazione, più coinvolgimento, più dedizione, più competenza, più pazienza, più empatia, più autorevolezza. L’ubiquità, quella capacità di stare in due luoghi contemporaneamente e che usiamo quando lasciamo una classe e corriamo come Bolt per non lasciare scoperta la classe dell’ora successiva, non ce l’avevano ancora apertamente chiesta. Abbiamo anche quella, mannaggia, ci hanno scoperti.

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