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Coronavirus, addio al neurologo Arrigo Moglia. “Parlava guardandoti negli occhi. Con i pazienti lavorava sull’accettazione della malattia”

Sabrina Ravaglia, neurologa dell’Irccs Fondazione Mondino di Pavia, ricorda così il professore da poco in pensione ucciso da Covid 19
Coronavirus, addio al neurologo Arrigo Moglia. “Parlava guardandoti negli occhi. Con i pazienti lavorava sull’accettazione della malattia”
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“Aveva questa grande capacità di trovare soluzioni ai problemi. Ci arrivava con una sorta di pensiero laterale. Magari qualcuno gli chiedeva un consiglio per una questione su cui stava riflettendo da giorni. Lui ascoltava, e diceva la sua. Dall’altra parte la reazione era sempre la stessa: ‘Come ho fatto a non pensarci prima?’”. Sabrina Ravaglia, neurologa dell’Irccs Fondazione Mondino di Pavia, ricorda così Arrigo Moglia. Hanno lavorato insieme per oltre vent’anni. Voce autorevole nel campo della ricerca italiana e internazionale, Moglia è stato per anni ordinario di Neurologia all’università di Pavia e direttore del dipartimento di Fisiopatologia dell’istituto Mondino.

Era arrivato nel pavese da Biella, per studiare Medicina. Si era laureato nel 1972 e della stessa facoltà è stato in seguito preside vicario, dal 2005 al 2010. Da poco in pensione, è morto a 73 anni dopo aver contratto il coronavirus. È stato autore o coautore di centinaia di pubblicazioni scientifiche. “Ci siamo conosciuti quando io ero specializzanda, e poi siamo sempre rimasti in contatto durante tutto il mio periodo universitario. Era il mio mentore”, ricorda la dottoressa Ravaglia. “Parlava sempre guardando le persone negli occhi e cercava di mettere ognuno a proprio agio”. Ogni tanto non ci riusciva. Una volta una specializzanda scoppiò a piangere dopo una sua critica, durante un convegno. Moglia, spiazzato e imbarazzato, cercò di sdrammatizzare con una battuta: “Ma sono vent’anni che non faccio piangere una donna!”.

Con i colleghi mostrava un’ironia attenta. Mai sarcastica o pungente, sempre leggera. La usava per creare armonia all’interno dell’ambiente di lavoro e per districarsi nel difficile mondo universitario. “Come insegnante era molto pratico. Trasmetteva la sua conoscenza della materia in modo molto diretto e sapeva distinguere fra cosa può servire e cosa no”. Rifletteva spesso: era un sostenitore delle decisioni prese a mente fredda, mai d’impulso.

Verso i suoi pazienti aveva uno sguardo particolare: “Spesso si tratta di malattie non curabili. Seguiamo il decorso con un attento monitoraggio. Soprattutto per questo motivo, lui teneva molto all’aspetto psicologico e si impegnava per lavorare sull’accettazione della malattia, un’operazione tutt’altro che semplice”, continua Ravaglia.

Quando veniva a sapere di qualche collega ricoverato, Moglia lo cercava al telefono per avere notizie, oppure andava a trovarlo e portava con sé un regalo. Spesso, un libro. Nel tempo libero che aveva a disposizione, cercava funghi e giocava a golf. Ma, soprattutto, sciava. Negli anni si era costruito la fama di essere imbattibile. Una volta un collega altrettanto appassionato lo seguì sfrecciando ad alta velocità fra le curve di una pista che gli sembrò interminabile. Arrivato alla fine, esausto, si ritrovò a pensare: “Grazie, Signore, per avermi fatto portare le gambe a casa”.

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