Guardandoci intorno durante questi straordinari tempi di pandemia, una cosa ci salta all’occhio in maniera abbastanza chiara: i ricchi e i privilegiati non piacciono a nessuno. Se prima infatti, prima quando vivevamo una vita normale, la frenesia della quotidianità o la dolcezza dei piccoli piaceri (l’odore dei limoni, direbbe Montale) ci distraevano dal guardare la cima della piramide alimentare di questa società, la fine della normalità incide sulla pietra anche le grandi differenze che ci caratterizzano.

Non ci impietosisce l’umanizzazione del privilegio tramite la diretta Instagram, non ci commuove il grande cuore di Fedez e le sue donazioni, non ci rasserenano gli appelli a stare a casa di cinquantenni con gli zigomi rifatti, un divano troppo lucido e un barboncino troppo bianco.

Dopo quasi due mesi di reclusione in casa nostra abbiamo capito diverse cose, tutte importanti: uno, non siamo tutti sulla stessa barca, due, l’accesso ai tamponi e più in generale alle cure mediche non è uguale per tutti, tre, qualcuno in questo paese è stato ritenuto sacrificabile in nome di un’economia che non deve fermarsi, ma soprattutto quattro, non andrà tutto bene, proprio per niente. Tant’è che anche i più patriottici o talentuosi nel canto hanno smesso di passare i pomeriggi sul balcone.

Vorremmo rasserenare tutti i possessori di cani particolarmente piccoli e particolarmente bianchi che stanno leggendo: tranquilli, questa cosa non avrà conseguenze. Quello che sta emergendo in Italia da due mesi a questa parte è senz’ombra di dubbio un odio di classe, ma totalmente sterile. Quest’odio è senza coscienza di sé, senza organizzazione, senza una guida, senza rivendicazioni. Quasi folklore, tendente al risentimento, simile alla frustrazione.

In mezzo a tutto ciò lo scettro del Grande Cattivo l’ha preso fieramente il mondo del calcio, giustamente terrorizzato dalle perdite ulteriori rispetto a quelle accumulate fino ad ora che comporterebbe non terminare il campionato entro il prossimo settembre. E quindi si gioca, forse no, forse boh. Non ci interessa minimamente: a dirvi la verità, abbiamo pure smesso di seguire le notizie.

Perché questa è una roba che non ha nulla a che vedere con lo sport, con il divertimento nell’aggregazione, la gioia nella vittoria, la tristezza nella sconfitta. È gente che deve far quadrare i conti e quindi decide di riaprire il circo giocando una partita ogni 3 giorni in piena estate mentre in Italia si continua a morire, ad ammalarci e a sprofondare. Questo l’ha capito chiaramente anche il tifoso di calcio.

Disgustati dall’industria del pallone sentiamo la necessità di rifugiarci in un altro calcio, in altri tempi. Non però guardando attraverso la ridicola e stupida lente della nostalgia, quella che fa apparire Cleto Polonia un calciatore dignitoso e Cecchi Gori una brava persona. Preferiamo muoverci guidati dalle parole di Alessandro Orsetti, padre del combattente internazionalista Lorenzo Orsetti – nome di battaglia Tekoser – caduto a 33 anni a Baghuz, nella parte Sud Orientale della Siria, mentre combatteva l’Isis insieme ai curdi delle Ypg e Ypj.

In un’intervista rilasciata nei giorni immediatamente successivi alla morte del figlio, Orsetti – sottolineando i motivi che spinsero Lorenzo a partire – parlava di un idealismo molto forte, aggiungendo in un passaggio emozionante che la morte del figlio toccava e scomodava le coscienze di tutti, perché Lorenzo nel 2019 era morto per un’idea, e nel 2019 morire per un’idea non era preso in considerazione ormai più da nessuno. Di un altro calcio e di un altro mondo a noi piace cercare le idee, non gli attaccanti con i nomi che sembrano una marca di orologi.

Ci piace quindi chiudere questa riflessione con la storia, senz’ombra di dubbio anacronistica, dell’Rnk Split, la squadra di Spalato fondata da studenti anarchici (il primo nome della squadra fu proprio Anarh) e che nel suo documento di fondazione nel 1912 recitava: “Giochiamo per diletto, ma anche in segno di protesta contro ogni male. Il nome l’abbiamo scelto perché ci pareva il migliore, perché racchiude in sé anche qualcos’altro”.

La storia della squadra ha una particolarità probabilmente unica nel panorama calcistico europeo: lo scioglimento volontario dell’intera rosa. Gli anarchici di Spalato infatti decisero di liberare i propri giocatori e il proprio staff per due volte nella loro storia; la prima nel 1936, per permettere ai loro tesserati di combattere il fascismo franchista nella guerra civile spagnola; la seconda nel 1941, quando i reduci di Spagna tornati nel 1939 chiesero di nuovo lo scioglimento della squadra per unirsi ai partigiani titini nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia.

Insomma, da un calcio che non si ferma per due conti da far tornare ad uno che pretende di fermarsi per due conti da regolare.

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