Nel Paese che vuole ripartire, c’è qualcuno che prova a farlo prima degli altri: il pallone. La fine del lockdown si avvicina, il governo si prepara alla “fase due” ma deve fare i conti con il mondo del calcio, che da settimane spinge per tornare in campo, e non vorrebbe aspettare nemmeno la scadenza del 4 maggio: anche una settimana o pochi giorni di anticipo possono essere preziosi per chi deve salvare una stagione (e i conti dei club). Sabato la Figc ha inviato ai ministeri dello Sport e della Salute un protocollo che dovrebbe dettare le linee guida a tutti gli addetti ai lavori e convincere il governo. Assomiglia ad una “corsia preferenziale”, che passa dalla pretesa di effettuare migliaia di tamponi e test sierologici ai calciatori, in un momento in cui medici e infermieri devono aspettare.

Il piano è concludere la stagione tra giugno e luglio. Per farlo, però, le squadre devono tornare prima ad allenarsi, e diventare degli enormi ambienti sterili, a prova di virus. E questo si può fare solo con controlli a tappeto su tutti. Non solo i giocatori, anche lo staff tecnico, fisioterapisti, magazzinieri, i dipendenti a contatto col gruppo: parliamo di 50-70 persone per club. È quello che vorrebbero fare tutti gli ambienti di lavoro. Il calcio pretende almeno 2mila tamponi nel giro di 3 giorni, da analizzare nei centri regionali accreditati, che si contano sulle dita di una mano: il rischio di intasarli è concreto, e già in passato ci sono state polemiche sui tamponi a vip e calciatori. E c’è da sperare che arrivi l’ok sui test sierologici.

Poi ci sono una serie di prescrizioni quantomeno improbabili: allenamenti a 2 metri di distanza, ingressi negli spogliatoi a scaglioni, centri di allenamento blindati (non tutti sono così moderni e attrezzati). In caso di infortuni, ospedali e cliniche dovrebbero mettersi a disposizione per accogliere i calciatori in “massima sicurezza”, come se non avessero altri problemi. Soprattutto, ammesso che si riesca a creare questo ambiente a contagio zero, poi bisognerà mantenerlo. I contatti con l’esterno si possono ridurre, non azzerare. E il vero problema sono i movimenti dei membri del gruppo: per assicurarsi che non si infettino, l’unica soluzione è che non escano dal ritiro. Mai, nemmeno per una passeggiata. Praticamente un sequestro di persona collettivo. L’alternativa sarebbe ripetere i controlli dopo ogni uscita, ma così il numero dei tamponi aumenterebbe in modo esponenziale.

La Figc ha fatto il suo lavoro. Ha stilato delle regole per allenarsi in (relativa) sicurezza. Per farsi dire di sì dal governo (mercoledì la risposta del ministro Spadafora), ha provato a ridurre il più possibile l’impatto della sua ripresa sul Paese, tagliando di fatto fuori la Serie C (che infatti ha già alzato bandiera bianca, annunciando la probabile fine anticipata del campionato) e probabilmente pure la Serie B: con loro i tamponi sarebbero decuplicati, ma per i campionati minori il protocollo è inapplicabile, bene che vada così giocherà solo la Serie A. Cioè i più ricchi, e già su questo ci sarebbe da discutere. Ma per il pallone che guarda solo agli interessi dei soldi e dei diritti tv, sarebbe il male minore.

È un documento fatto dal calcio, per il calcio. Ma il punto è proprio questo. Il protocollo probabilmente è davvero è a basso impatto, ma se tutti gli altri sport di squadra chiedessero di fare ugualmente non sarebbe più così. E uscendo dal mondo sportivo, lo stesso vale per altre categorie. Tutti vogliono ripartire ma non lo si potrà fare tutti insieme, almeno all’inizio della delicata “fase due”. Il governo deve soppesare pro e contro, in termini innanzitutto sanitari ma forse anche di comunicazione, del via libera al calcio. Si tratta di stilare una lista delle priorità, o meglio, di cosa e quanto può permettersi il Paese a inizio maggio. Insomma, di rispondere alla domanda: “Chi riparte subito?”. Per il mondo del pallone la risposta è semplice: “Prima i calciatori”.

Twitter: @lVendemiale

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