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Coronavirus, l’infettivologo cinese: “Per fermare il contagio bisogna chiudere tutto. Servono più tutele per i vostri medici”

Il professor Qiu Yunqing è al vertice della delegazione di tredici esperti che ha appena visitato alcuni ospedali del nord Italia: "Le strutture di degenza sono spesso vecchie e poco attrezzate - ha detto in un'intervista a Repubblica - I malati vanno intercettati prima che affollino gli ospedali. Servono cliniche dove si ricoverano i positivi, anche se asintomatici"
Coronavirus, l’infettivologo cinese: “Per fermare il contagio bisogna chiudere tutto. Servono più tutele per i vostri medici”
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Un mese di distanziamento sociale “rigido” con tutte le serrande abbassate: fabbriche, uffici, negozi. Tutto chiuso. “E il contagio si fermerebbe”. Lo afferma, in un intervista a ‘la Repubblica’, il professor Qiu Yunqing, infettivologo cinese di 57 anni, al vertice della delegazione di tredici esperti che ha appena visitato alcuni ospedali del nord Italia. Da quel che ha potuto osservare, dice, servirebbe “un vero blocco collettivo delle attività, come si è fatto in Cina. Con rifornimenti alimentari per quartieri, o blocchi di palazzi. Serve il controllo rigido della diffusione del contagio, altrimenti non finiranno mai le persone da curare, ed è così che gli ospedali vanno in tilt. Non vi sono altre misure, lo dico perché noi l’abbiamo sperimentato. Ci tengo che il messaggio passi al vostro Paese”.

Qiu Yunqing è il vicedirettore dell’ospedale universitario della regione di Zhejiang: confrontando la situazione nelle strutture italiane, commenta “i livelli di protezione sono sicuramente inferiori ai nostri. Parlo di maschere, di tute protettive in Tyvek. Le maschere generiche non bastano, l’impressione è che gli operatori non siano abbastanza tutelati. Forse per mancanza di risorse effettive, o, all’inizio, di mancata comprensione del problema. Come è successo a Wuhan, nel primo periodo c’è stata una situazione simile: non si sapeva cosa fosse, questo virus, e non c’era la possibilità di avere risorse”. E serve anche più personale, per dare il cambio ai medici provati da turni troppo lunghi: “Una malattia come questa richiede tute pesanti, quindi il lavoro è fisicamente ancora più faticoso – spiega l’infettivologo – Non si può reggere un turno di 8 ore, bisogna a scendere a 4, 6 ore. Quindi ci vuole più gente, un terzo in più del solito“.

Un’ultima osservazione riguarda il noto problema delle terapie intensive. “Lì ho visto delle criticità – osserva – Le strutture di degenza sono spesso vecchie, e questo complica molto. Non è una critica, noi abbiamo creato ospedali nuovi, ma anche gli altri nostri ospedali erano recenti, costruiti ai tempi della Sars, quindi con criteri nuovi su organizzazione di spazi e lavoro. Difficile farlo in strutture datate”. Di fronte all’emergenza attuale, aggiunge, “nessun ospedale, neanche il più moderno, può resistere all’afflusso gigantesco di pazienti, come sta succedendo in Italia”. Bisogna evitare che le situazioni ‘sommerse’ – di chi è a casa, o è asintomatico – esplodano. “I malati vanno intercettati prima. Servono cliniche dove si ricoverano i positivi, anche se asintomatici. Li si monitora, e si può intervenire in tempo, se si aggravano. Ma non devono stare a casa senza controlli, né devono andare al pronto soccorso. Devono stare in questi posti finché non si negativizzano. Nel frattempo bisogna tracciare i loro contatti, e controllarli”. Come? “Con l’analisi dei movimenti, se un malato è stato in un autobus, bisogna rintracciare tutti gli occupanti – conclude – Si deve fare una ricerca anamnestica dettagliata“.

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