Non è il momento di andare in piazza, è ancora il momento di alzare voce e teste per i diritti e le libertà delle donne. L’8 marzo 2020 cade nel cuore dell’emergenza Coronavirus: i cortei che da quattro anni riempiono le strade delle città italiane per lo sciopero femminista sono stati bloccati per motivi di sicurezza e dei temi che di solito, almeno una volta all’anno, finiscono sulle prime pagine dei giornali sentiremo solo qualche vago accenno. Non è il momento di manifestare, lo rispettiamo. Ma è sempre, lo è ancora nonostante tutto, il momento di tenere alta la guardia per le donne. In Italia, come nel mondo. E allora parliamo, discutiamo e ricordiamo. In rete, se non si può nelle strade. Ma anche e soprattutto in famiglia, nelle nostre camere e sul posto di lavoro. Lo hanno annunciato le femministe di Non una di meno, che da mesi pianificavano lo sciopero: “Occupiamo gli spazi in tutte le forme possibili, con tutta la fantasia”. A Bologna, per dirne una, chi vuole oggi metterà fazzoletti viola alle finestre. A Milano trasmetteranno testimonianze su un canale radio creato ad hoc per la giornata. A Genova si vedranno in piazza il 9 con un gomitolo di lana che simboleggi i legami, ma anche le distanze necessarie per non contrarre il virus. E’ poco? E’ un segnale.

Oggi, l’Italia si stringe per superare un momento difficilissimo. Noi appuntiamo qui i cinque motivi per cui è ancora importante manifestare per i diritti delle donne. Perché quando sarà risolta questa emergenza, si affrontino urgenze che non possono più aspettare. Sono cinque gli striscioni che abbiamo scelto di tenere in mano nella nostra piazza virtuale: parlano di lotta alla violenza di genere, rappresentanza, parità salariale, salute e cultura del consenso. Sono solo alcuni dei cinque temi, tra i tanti, per cui ci sembra urgente chiedere un intervento da parte delle istituzioni. E lo facciamo uomini e donne stretti insieme perché oggi più che mai non dimentichiamo che la lotta che si predica femminista non è solo per le donne, ma innanzitutto è contro un sistema che opprime e dimentica i più deboli. E’ questa una battaglia che unisce le generazioni e supera i confini dei singoli Stati. E, anche se non possiamo scendere in piazza, oggi nello stesso corteo virtuale, troviamo i volti di chi lotta in prima linea per maggiori diritti. Ci sono le donne che lottano per l’aborto legale in Argentina (leggi qui la testimonianza di una di loro), ma anche le migranti che scappano dalla guerra in Siria e in queste ore chiedono rifugio all’Europa. Ci sono le adolescenti dei Fridays for future che chiedono un mondo più verde e le attiviste che a Roma lottano contro lo sgombero della casa delle donne Lucha y Siesta. Ci sono le militanti cilene che ballano per le strade cantando “El violador eres tu”: insegnano che si punta il dito contro chi la violenza la perpetua e non contro chi la subisce, ricordano che le grida di un gruppo che balla fanno più rumore di qualsiasi manifesto. Ci sono in tanti e tante e chiedono attenzione. Con un pensiero speciale, oggi, alle tante scienziate, ricercatrici, dottoresse, infermiere, ostetriche: troppo spesso discriminate, sono in trincea insieme ai loro colleghi per aiutare l’Italia a superare una crisi senza precedenti.

Femminicidi – Rosalia, 54 anni, massacrata di botte per tre giorni dal marito fino a che non è morta. Lo aveva denunciato, ma non è servito a niente. Ana, 30 anni, presa a pugnalate alla pancia dal compagno dopo avergli rivelato di essere incinta. L’uomo prima le ha promesso di portarla in ospedale, poi le ha tagliato la gola. Chiara, 40 anni, ammazzata in una roulotte dal partner: il suo cadavere è stato ritrovato quattro mesi dopo perché i passanti si sono accorti della puzza. Le donne in Italia e nel mondo continuano a morire per mano degli uomini. Non lo dicono (solo) le femministe. A fine gennaio lo ha detto ad esempio il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: “E’ drammatico”, ha dichiarato commentando i dati del 2019, “il fatto che permangono pressoché stabili, pur se anch’essi in diminuzione, gli omicidi in danno di donne, consumati nel contesto di relazioni affettive o domestiche”. Mentre “calano gli omicidi con uomini come vittime, 297 nel 2019, le violenze in danno di donne e di minori diminuiscono in numero, ma restano una emergenza nazionale. Le donne uccise sono state 131 nel 2017, 135 nel 2018 e 103 nel 2019. Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi in danno di uomini, in maniera davvero impressionante”. Il 2020 è stato l’anno dell’entrata in vigore della legge Codice rosso pensata per andare in soccorso delle donne vittime di violenza: sono state aumentate le pene per i reati di violenza sessuale e maltrattamenti; e la vittima ora deve essere sentita dal pm entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato. E’ stato un primo passo che però, a detta di associazioni ed esperti non è ancora sufficiente. Devono cambiare i registri, la cultura. Servono fondi ai centri antiviolenza, supporto a chi fa le indagini e programmi specifici per fermare quella che è una vera e propria “emergenza nazionale”.

La rappresentanza – I Comuni amministrati da donne sono 1131, il 14,29 per cento del totale. Le Regioni? Due. In Parlamento dal 2018 le quote rosa sono il 35 per cento: un record nel suo genere, ma la parità è ancora molto lontana. Nel governo le ministre sono solo 7 su 21 e, ancora una volta, l’obiettivo di avere eguale rappresentanza non è stato raggiunto. In Italia mai le donne hanno ricoperto il ruolo di presidente del Consiglio e presidente della Repubblica. E se si guardano i leader dei singoli partiti, sembra un orizzonte lontanissimo: Pd, M5s, Fi, Lega (tutti tranne Fdi) sono guidati da uomini. I leader sono uomini, ma per la maggior parte anche le loro segreterie, i circoli ristretti e i consiglieri di fiducia. Lo hanno scritto le deputate in un documento-appello consegnato in questi giorni al premier Giuseppe Conte: “Le donne sono il 51 per cento della popolazione, ma hanno scarso accesso alle ‘stanze dei bottoni'”. L’unico fronte dove la tendenza sembra essere invertita: i board dei consigli d’amministrazione delle aziende. Ma è così solo perché la legge Golfo-Mosca lo ha messo obbligatorio. “Le posizioni apicali”, scrivono ancora le deputate, “continuano a essere appannaggio quasi esclusivo degli uomini e che dunque non sono rappresentative dell’intera platea professionale di cui le donne fanno parte a pieno titolo”. E’ un mondo ancora, per la maggior parte dei casi, comandato da maschi. E non solo per quanto riguarda la politica. In Italia le direttrici di giornali, tv e siti donne si contano sulle dita di una mano. Basta accendere la televisioni, seguire un convegno accademico o meno per trovare panel di soli uomini. Il termine tecnico per definirli è “manel”: schiere di relatori uomini, scelti perché “non si poteva fare altrimenti”, che discutono dei temi più disparati. Volete le prove? Ilfattoquotidiano.it ha raccolto decine di foto inviate dai lettori.

Il lavoro – Il tasso di occupazione delle donne in Italia, a gennaio 2020, è del 50 per cento. Quello degli uomini il 68,1%. Un confronto impietoso: il divario è tra i più alti in Europa, quasi doppio rispetto alla media europea che è di 10 punti. Ma non è tutto. Secondo i dati Istat, illustrati da Linda Laura Sabattini davanti alla commissione Lavoro della Camera, le caratteristiche del lavoro femminile sono “precarietà, minore accesso alle figure apicali, crescita del part-time involontario e della sovra-istruzione”. Le donne che lavorano a tempo determinato sono il 17,3% e quelle a part-time sono un terzo (32,8%) contro l’8,7% degli uomini. Il part time, inoltre “non è cresciuto come strumento di conciliazione dei tempi di vita, ma nella sua componente involontaria”: quest’ultima ha superato il 60% del totale contro il 34,9 dello stesso periodo del 2007. Quindi un “part-time imposto” dall’azienda, nonostante le donne siano disposte a lavorare più ore.

C’è poi naturalmente il tema dei salari: nel 2017, ha detto sempre Sabbadini, i redditi complessivi guadagnati dalle donne “sono in media del 25% inferiori a quelli degli uomini (15.373 euro rispetto a 20.453 euro)”. Nel 2008 era del 28%: va meglio, ma solo leggermente meglio. Lo sciopero di Non una di meno si promette di andare oltre. Ovvero parlare anche per tutte le lavoratrici che non entrano nelle statistiche: “Vogliamo dare la parola”, è l’annuncio, “a quelle condizioni di lavoro e vita che rischiano di essere considerate invisibili perché ‘è normale’ che una madre passi la domenica a fare le pulizie mentre cucina per tutta la famiglia, o che le casse dei supermercati siano aperte e gestite da qualcuna che, per uno stipendio da fame, deve lavorare anche di domenica, magari sentendosi in colpa per aver ‘abbandonato i doveri familiari'”. Insomma c’è un “doppio sfruttamento”, di cui non si parla mai abbastanza e che, scrivono, rivela “un rapporto tra la violenza domestica e quella sui posti di lavoro”.

La salute – In Italia è ancora un urgenza la tutela del diritto all’aborto. A 42 anni dall’approvazione della legge 194, il 68 per cento dei ginecologi è obiettore di coscienza. Il che significa, nel 2020, che in alcune Regioni è ancora difficile interrompere volontariamente la gravidanza. Ma non solo. Il Paese che, per bocca di una grossa fetta della politica, ancora mette in discussione il diritto all’aborto, non facilita l’accesso alla contraccezione. Lo dice Aidos nel suo rapporto diffuso il 28 febbraio: nonostante la legge preveda che sia gratuita per tutti, si è chiesto alle Regioni di applicare la norma. E negli anni si sono adattate solo Emilia-Romagna, Toscana e Puglia. Morale: siamo 26esimi in Europa per gratuità e accessibilità dei contraccettivi, vicini a Ucraina e Turchia. E i costi della contraccezione, dai preservativi alle spirali, cadono tutti sulle donne. I prezzi alti da pagare per la salute non finiscono qui. Basti pensare alla tampon tax: la tassa sugli assorbenti che in Italia è tra le più alte d’Europa toccando la soglia 22 per cento. A dicembre scorso il governo giallorosso ha rivendicato di averla abbassata su quelli compostabili: una misura insufficiente per prodotti costosi e pressoché introvabili. Tutto mentre la Scozia si avvia alla distribuzione gratuita degli assorbenti per le donne.

Il consenso – Infine, mettiamo nella lista anche l’urgenza di parlare della “cultura del consenso“. E’ un tema difficile da affrontare, soprattutto in Italia, perché mette in discussione l’intero sistema. Partiamo da un passaggio del piano femminista che Non una di meno ha stilato nel 2017 dopo decine di tavoli di lavoro in tutta Italia: la cultura del consenso, scrivono le femministe, “è una cultura capace di rimettere la questione del consenso al centro di ogni interazione – sessuale, sociale, politica -, senza mai dare per scontati ruoli o desideri sessuali, preferenze o opinioni; senza mai porsi al di sopra delle/degli altri o prevaricare. Il consenso è un processo aperto, mai risolto una volta per tutte, un’interazione costante basata sulla capacità di ascolto e su pratiche di condivisione”. Un’utopia? Iniziare a parlarne, confrontarsi, ascoltarsi sarebbe già importante. Ne va del futuro delle nostre comunità. E, anche se non è il momento e abbiamo altre emergenze da affrontare, non scordiamolo. Perché da qui dovremo ripartire.

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