Mettere ordine nel caos di assegni, detrazioni e bonus ora in vigore per le famiglie, che costano molto ma sono inefficienti, e sostituirli con un unico trasferimento diretto e universale. E investire le risorse che adesso sono destinate a quota 100 in servizi di qualità per la prima infanzia, partendo dalle zone più svantaggiate. “In un colpo solo questo consentirebbe di ridurre le disuguaglianze di partenza che penalizzano i figli delle famiglie disagiate, creare domanda di lavoro per le donne e favorire la conciliazione per quelle che hanno redditi bassi e senza servizi sono costrette a smettere di lavorare quando diventano madri“. E’ la proposta della sociologa Chiara Saraceno, esperta di welfare, già docente alla facoltà di scienze politiche dell’università di Torino e oggi honorary fellow al Collegio Carlo Alberto, per sostenere davvero le famiglie e consentire alle donne di non dover scegliere tra carriera e figli. Perché alla vigilia della festa del lavoro l’Istat ha fatto sapere che a marzo il tasso di occupazione femminile nella fascia 15-64 anni ha raggiunto il massimo dall’avvio delle serie storiche. Ma quel “massimo” è solo il 49,8%: meno di una su due, 18 punti sotto il tasso maschile.

Nel confronto con i partner europei l’Italia resta fanalino di coda insieme alla Grecia. Le madri che continuano a lavorare spesso sono costrette al part time, così i redditi medi delle donne sono inevitabilmente più bassi di quelli dei loro compagni: 25mila euro annui contro 45mila, secondo il Global Gender Gap Report 2018 del World economic forum. A risentirne è tutta l’economia: l’Ocse calcola che dimezzare il gap di genere farebbe crescere il pil italiano dello 0,2% in più ogni anno, il doppio di quanto atteso dai decreti Crescita e Sbloccacantieri. Eppure finora il governo del cambiamento, su questo fronte, non ha cambiato nulla. Anzi: quest’anno il contributo per la baby sitter o l’asilo nido, introdotto da Monti nel 2013 e da allora sempre prorogato, non è stato rinnovato.

In Sicilia e Campania meno del 30% delle donne ha un posto. Lombardia oltre la media Ue – Stando ai dati Istat appena pubblicati, a marzo 2019 sono aumentate sia le donne che un posto ce l’hanno sia quelle che lo cercano: ben 1,2 milioni contro le 835mila del marzo 2008. Le occupate sono 9,79 milioni, circa 600mila in più rispetto a prima della grande crisi. E le inattive sono scese a 8,4 milioni, un milione in meno rispetto all’inizio del 2008. Ma c’è poco da festeggiare: “Dietro questi lievissimi miglioramenti ci sono due ordini di disuguaglianze“, spiega Saraceno a ilfattoquotidiano.it. “Quella territoriale e quella legata al livello di istruzione. Le laureate del Centro Nord hanno tassi di occupazione simili alla media Ue. Una donna del Sud poco istruita, invece, è come se vivesse in un altro Paese”. Dalla banca dati dell’istituto di statistica si scopre per esempio che in Campania il tasso di occupazione femminile è sotto il 30%, in Sicilia non arriva al 28%, Calabria è poco sopra il 31% contro il 76% della Lombardia, che supera la media europea, il 62% dell’Emilia Romagna e il quasi 60% del Piemonte. Il livello di istruzione però fa davvero la differenza: tra le campane e le siciliane laureate o con un master il tasso raddoppia, mentre alle lombarde il “pezzo di carta” dà un vantaggio di soli sei punti rispetto alla media regionale.

L’esempio francese: le donne con due figli lavorano più di quelle senza bambini – Guardando oltreconfine, secondo Eurostat nel 2018 l’Italia era al penultimo posto nella Ue dietro la Grecia con un tasso di occupazione femminile del 53,1%. La percentuale è un po’ più alta rispetto a quella diffusa da Istat perché l’istituto europeo prende in considerazione la percentuale di occupate sulla popolazione dai 20 ai 64 anni escludendo quindi la fascia dai 15 ai 20 anni. La Spagna ci supera di otto punti percentuali, il Portogallo di 19 punti. In Francia e Germania la quota di donne occupate è rispettivamente al 67,6 e al 75,8%. La media Ue è vicina al 68%, quella dell’Eurozona supera il 66%. Ma da cosa dipende la voragine che separa la Penisola dagli altri big?

Per capirlo aiuta il confronto, elaborato di recente da Openpolis su dati Eurostat, tra l’andamento del tasso di occupazione delle donne tedesche, francesi, inglesi e italiane di età compresa tra i 20 e i 49 anni prima e dopo la nascita dei figli (vedi grafico). In Francia, dove le madri ricevono un assegno di circa 180 euro al mese per i primi tre anni di vita del bambino e dal secondo figlio spettano altri 130 euro al mese, le donne con due bimbi hanno addirittura un tasso di occupazione più alto di quelle senza figli: 78% contro 74%. Quello, secondo Saraceno, è il modello di sostegno universalistico a cui ispirarsi. In Italia invece il tasso cala di quasi 5 punti per chi ha un solo figlio e di più di 7 per le madri di due figli. In Germania, va detto, l’andamento è simile. Ma in partenza la quota di occupate è più alta di 22 punti.

Le promesse non mantenute del contratto di governo – Nel contratto di governo siglato da Lega e M5s – peraltro sotto la voce “Politiche per la famiglia e la natalità” – compariva la promessa di “politiche efficaci per la famiglia, per consentire alle donne di conciliare i tempi della famiglia con quelli del lavoro, anche attraverso servizi e sostegni reddituali adeguati”. E si parlava anche di “innalzamento dell’indennità di maternità”, “premio economico a maternità conclusa per le donne che rientrano al lavoro” e sgravi contributivi per le imprese che mantengono al lavoro le madri dopo la nascita dei figli, oltre a rimborsi per asili nido e baby sitter. A un anno di distanza, l’unico intervento messo in campo è la concessione di una mensilità aggiuntiva di reddito di cittadinanza alle imprese che assumo un percettore donna. “Sembra che ci siano sempre altre priorità”, commenta Saraceno. “Donne e giovani vengono colpevolizzati perché non fanno bambini, ma quando si tratta di mettere in campo interventi per metterli nelle condizioni di farli senza perdere il lavoro si punta sempre su altro”. Come la pensione anticipata con Quota 100, che “privilegia i maschi con buone carriere. Ecco, quei soldi li avrei usati per rafforzare i servizi per l’infanzia. Quella sarebbe anche una politica di investimento nelle giovani generazioni”.

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