Nel 2002 un altro virus proveniente dalla Cina – la SARS – aveva creato un clima di panico a livello internazionale. In uno studio apparso sulla prestigiosa rivista ‘Social Science & Medicine’, lo storico Partick Wallis e la linguista Brigitte Nerlich dopo avere analizzato i principali quotidiani e settimanali britannici avevano scoperto che il termine più diffuso per descrivere il virus era ‘killer’. L’idea della SARS che il linguaggio dei media passava ai lettori incorporava dunque già semanticamente un’immagine di morte, sistematicità dell’esecuzione e ineludibilità della fine.

La contabilità dell’OMS diversi anni dopo fornì il reale quadro della diffusione e della letalità della malattia: poco più di 8000 casi e circa 800 decessi in tutto il mondo. Non sappiamo ancora come andrà a finire con l’epidemia di COVID 19, il coronavirus che sta monopolizzando l’informazione dei media a livello mondiale. Al 22 febbraio il sito del Worldometers che aggiorna in tempo reale sulla diffusione del virus parla di 77.924 casi, 2362 decessi e 21277 guarigioni. Il tasso di mortalità del COVID 19 si colloca intorno al 2%-2,5%. Secondo alcuni si tratta di una percentuale sottostimata, per motivi politici da parte del governo cinese. Altri pensano invece questo dato possa essere sovrastimato perché in Cina molte persone non si rivolgono agli ospedali per sintomi respiratori che possono essere scambiati per influenza e il numero di coloro che sono guariti senza essere censiti sia molto più elevato di quello ufficiale. Pur in questo clima di elevata incertezza, quello che sappiamo è che il virus è stato individuato in un tempo rapidissimo e questo fa ben sperare per l’individuazione di un vaccino efficace nei prossimi mesi.

Dai dati ufficiali risulta inoltre che il COVID 19 è un virus particolarmente pericoloso per le persone che presentano già compromissioni di salute importanti. Un articolo apparso il 17 febbraio sul ‘Chinese Journal of Epidemiology’ per esempio evidenzia come il tasso di mortalità per i contagiati sopra gli 80 anni sia pari al 14,8% mentre sotto i 50 anni non superi lo 0,4%. A rischiare di morire sono inoltre molto di più le persone con patologie pregresse come le malattie cardiovascolari (10,5% di mortalità), il diabete (7,3%), i problemi respiratori (6,3%) e l’ipertensione (6,0%), mentre i soggetti sani risultano molto più resistenti.

Senza nulla togliere alla pericolosità del virus, si tratta di indicazioni che mettono il COVID 19 su un livello di rischio per la salute non molto distante da quello di una normale influenza stagionale che in Italia alla quarta settimana del 2020 ha causato in via diretta e indiretta secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità una media giornaliera di circa 230 decessi. Rispetto alla SARS che presentava un tasso di mortalità quasi del 10% o all’Ebola che uccideva la metà dei contagiati, il paragone con il COVID 19 è anche molto più rassicurante e nonostante l’elevato livello di contagiosità il virus appare assai meno letale.

Il problema del dibattito sul COVID19 è che oggi si parla quasi esclusivamente del virus e non delle reazioni delle persone di fronte alle informazioni del contagio. Se ponessimo l’attenzione su cosa sta accadendo sul piano della cosiddetta opinione pubblica forse dovremmo essere molto più preoccupati di quanto non lo siamo per le conseguenze della diffusione del virus. Come ha scritto il premio Nobel Daniel Kahneman in un libro emblematicamente intitolato ‘Thinking, Fast and Slow’, le aspettative relative alla frequenza e all’intensità degli eventi sono distorte per gli esseri umani dalla prevalenza e dall’intensità emozionale dei messaggi a cui essi sono esposti. Questo vuol dire che le persone mediamente reagiscono in modo completamente irrazionale di fronte a fenomeni descritti in modo tale da fare scattare paure e emozioni.

Quello a cui si sta assistendo oggi di fronte alle notizie dell’arrivo del COVID 19 in Italia è qualcosa che fa vedere molto chiaramente il rapporto tra l’enorme potere assunto dai media e i comportamenti collettivi. L’isteria mediatica è tale da generare fenomeni che niente hanno a che fare con la gestione del problema. Casi di xenofobia e violenza contro i membri delle comunità cinesi e asiatiche sono ormai all’ordine del giorno, le persone modificano le abitudini quotidiane più banali, interi settori commerciali vanno in crisi per paura di entrare in contatto con merci provenienti da zone addirittura lontanissime dall’epicentro dell’epidemia in Cina. Il potere dei media è ormai tale da fare apparire l’effetto del famoso adattamento radiofonico de Guerra dei mondi interpretato di Orson Welles alla CBS il 30 ottobre del 1938 qualcosa di simile a un gioco di ragazzini. Durante la trasmissione Welles che era anche regista e produttore del programma aveva deciso di trasmettere nel corso del programma musicale alcuni comunicati dal vivo simili a quelli dei normali programmi radiofonici in cui gli ascoltatori venivano informati della discesa sulla terra di un gruppo di invasori extraterrestri. All’inizio e alla fine della trasmissione era stato annunciato che il programma voleva essere un semplice adattamento di un romanzo. Ciononostante la diffusione nell’etere di informazioni relative a una presunta invasione di marziani creò tra diversi ascoltatori il panico. Si racconta che tra le molte telefonate al centralino del New York Times successive alla diffusione del programma ve ne sia stata una di un uomo che seriamente domandò: “ a che ora è la fine del mondo?”

Ottanta anni dopo la trasmissione di Orson Welles non è più solo il 2% della popolazione a ascoltare un programma radio ma sono oltre il 90% dei cittadini a essere connessi attraverso televisioni, internet e social media ai produttori di informazione. Quello che si sta vedendo plasticamente in questi giorni è che basta l’uso di certi termini, la ripetizione di alcune notizie, la drammatizzazione di certe immagini a influenzare il comportamento di un intera nazione in modo del tutto irrazionale e illogico. Tanti anni fa il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt ebbe a dire che “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura, è la paura stessa”. Oggi questo richiamo suona di una drammatica attualità. Chi controlla l’informazione può ottenere dalla massa qualsiasi tipo di comportamento.

Forse la campana del COVID 19 ha suonato un altro requiem, non tanto per la salute dell’umanità, ma per l’idea di una razionalità argomentativa che sta alla base di democrazia come la abbiamo fino a oggi intesa.

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