Il primo caso confermato di Coronavirus in Africa era atteso: era quasi impossibile che il continente potesse rimanere indenne dal contagio, considerando anche gli stretti legami commerciali con la Cina. Per ora si sa solo che il caso positivo in Egitto è un cittadino straniero di 33 anni, di sesso maschile, che è stato subito posto in isolamento. Le 17 persone che sono venute in contatto con lui sono state sottoposte al test e tutte sono risultate negative. In via precauzionale sono comunque state messe in quarantena per 14 giorni. Ma per Gianfranco De Maio, coordinatore medico di Medici senza frontiere Italia è “difficile fare previsioni allo stato attuale”.

Se dunque il primo caso era atteso e si trattava solo di vedere dove si sarebbe manifestato, il punto ora è attrezzarsi alla risposta in caso di eventuali focolai localizzati. “Anzitutto – spiega De Maio – è necessario rafforzare la capacità diagnostica nei paesi africani, per riconoscere in tempo l’infezione. I laboratori attrezzati sono ancora pochi, anche se si sta lavorando per aumentarli. E serve anche una formazione del personale medico, alla quale stanno provvedendo l’Oms e Cdc”, i Centres for Disease Control and Prevention. Intanto il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha detto che “entro la fine della settimana 40 Paesi del gruppo ‘Who Africa’ e 29 del gruppo Pan American Health Organization saranno in grado di individuare il coronavirus. Ci sono diversi paesi africani – ha aggiunto – che stanno sfruttando l’esperienza acquisita nei test sull’Ebola per il coronavirus”.

Africa Cdc ha invece avviato l’Africa Task Force for Novel Coronavirus il 3 febbraio scorso. “Stiamo lavorando a stretto contatto con l’Oms e altri partner – scrive il direttore di Africa Cdc, John Nkengasong – per assicurare che i kit diagnostici di cui ha bisogno l’Egitto siano disponibili e che prendano le giuste misure per contenere il contagio.” “L’arrivo del Covid-19 in Africa era inevitabile, per questo Africa Cdc stava già lavorando attivamente con gli stati membri dell’Unione Africana e altri partner nelle scorse quattro settimane e investendo nella preparazione e nella risposta alla malattia. Il caso individuato dalle autorità egiziane dimostra che la strategia adottata è efficace”. Africa Cdc aveva già condotto un training a Dakar, in Senegal, e procurato kit diagnostici per 16 laboratori del continente, incluso l’Egitto. La settimana scorsa un’altra formazione è stata portata avanti a Nairobi, Kenya, diretta a 40 partecipanti provenienti da nove paesi su come migliorare l’individuazione del Covid-19 nei punti d’ingresso nei rispettivi paesi, in collaborazione con l’International Civil Aviation Authority (ICAO). A questa formazione hanno preso parte anche due compagnie aeree, Kenya Airways e South African Airlines.

Una delle misure adottate da subito è infatti quella dei termoscanner negli aeroporti. Diversi scali aeroportuali ne erano già dotati in seguito all’epidemia di ebola. E laddove mancano, si provvede al rilevamento della temperatura in altro modo. Molte compagnie aeree hanno poi sospeso i voli da e per la Cina. Ma non tutte. Resta attiva ad esempio Ethiopian Airlines, una delle più importanti del continente, che ha collegamenti con la Cina quasi quotidiani. Addis Abeba resta dunque uno degli hub potenzialmente a rischio più elevato.

L’Oms ha dato priorità a 13 paesi proprio in base ai loro rapporti più stretti con la Cina: si tratta di Algeria, Angola, Costa d’Avorio, Repubblica democratica del Congo, Etiopia, Ghana, Kenya, Mauritius, Nigeria, Sudafrica, Tanzania, Uganda e Zambia. “Sappiamo quanto siano fragili i sistemi sanitari nel continente” afferma Michel Yao, responsabile dei programmi d’emergenza per l’Oms. “Per noi è fondamentale l’individuazione precoce del Coronavirus, così da pervenirne una diffusione nelle comunità che possa causare un numero di casi superiore alla capacità di trattamento”. Per questo è fondamentale che siano stati avviati meccanismi di coordinamento per personale sanitario e pazienti anche nei paesi instabili, come il Sud Sudan. “Grazie a ebola – prosegue Yao – la maggior parte dei paesi ha già strutture per l’isolamento. Stiamo facendo pressione perché tutto il continente sia estremamente vigile”.

Il direttore di Africa Cdc, John Nkengasong, intervistato dalla prestigiosa rivista scientifica The Lancet, ha manifestato grande preoccupazione: “Questa malattia è una seria minaccia per le dinamiche sociali, la crescita economica e la sicurezza dell’Africa. Se non individuiamo e conteniamo il contagio, non riusciremo a raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati”. Sempre secondo The Lancet, all’inizio solo il National Institute of Communicable Diseases sudafricano e l’Institut Pasteur senegalese erano gli unici due laboratori di riferimento nel continente, ma se ne stanno attivando rapidamente altri: Ghana, Madagascar, Sierra Leone e Nigeria erano pronti il 4 febbraio, altri 11 paesi per il 10 febbraio. Altri paesi stanno ricevendo in questi giorni i reagenti necessari. 25 milioni di dollari sono arrivati dalla Bill & Melinda Gates Foundation.

Voli sospesi, cartelli informativi e persone in quarantena – L’Egitto dall’inizio di febbraio ha sospeso i voli della compagnia nazionale fino a fine mese, mentre circa trecento egiziani erano stati evacuati da Wuhan e posti in quarantena. A Brazzaville, così come in tanti altre capitali, campeggiano cartelli del Ministero della Salute che informano sui sintomi della malattia e danno indicazioni sul da farsi. Afferma Jean-Vivien Mombouli, direttore generale del Laboratoire national de santé publique (LNSP): “Si prende la temperatura, si prende contatto con i viaggiatori per avere un follow up a distanza, tramite telefono. Il governo ha emesso una circolare per organizzare la quarantena dei sospetti provenienti dalla Cina”.

In Gabon sono sospesi gli ingressi dalla Cina. A Malabo, in Guinea Equatoriale, tutti i passeggeri provenienti dalla Cina sono messi in quarantena per 14 giorni: 4 di loro sono in quarantena con sintomi sospetti. La Nigeria fin dall’inizio dell’epidemia ha deciso di sottoporre al test i viaggiatori che di rientro dalla Cina manifestino sintomi: cinque persone, finora controllate, sono risultate negative. Negativi anche gli esiti dei primi che presentavano sintomi sospetti al rientro dalla Cina, in Costa d’Avorio e Burkina Faso.

I quattro casi sospetti segnalati in Repubblica Democratica del Congo (tre dei quali in zone diverse lungo la frontiera con Uganda, Rwanda e Burundi) sono oggi stati dichiarati tutti negativi. Uno di questi casi era stato definito “refrattario alle analisi”, ad ora un unicum nel panorama continentale. Intanto, ieri in Burundi si è tenuta una riunione di coordinamento del Comité de pilotage per prepararsi alla risposta al virus. L’ambasciata cinese in Burundi raccomanda la quarantena per gli studenti burundesi rientrati di recente dalla Cina e chiede agli stessi di limitare le loro uscite e non partecipare ad assembramenti. In Rwanda, il presidente Paul Kagame ha invece rimosso la ministra della salute, accusandola fra l’altro di avergli mentito sulla disponibilità di test per il Covid-19: la donna aveva assicurato che il paese disponeva di 3500 test, ma è poi emerso che erano solo 95. Oggi un caso sospetto è stato prontamente messo in quarantena in Kenya: anche qui, si tratta di una persona di recente rientrata da un viaggio in Cina. Un altro caso sospetto a Libreville (Gabon), sempre di rientro dalla Cina, è risultato negativo al test.

Una situazione potenzialmente preoccupante è forse quella segnalata in Zambia, dove secondo il Los Angeles Times un ospedale a guida cinese ospiterebbe diversi lavoratori di recente rientrati dalla Cina con tosse ma non posti in isolamento. Dal Sudafrica intanto giungono appelli ad evitare la discriminazione delle comunità cinesi, che anche qui vengono ormai isolate e trattate con sospetto. Insomma: questo elenco non esaustivo e destinato a evolversi rapidamente mostra se non altro che l’attenzione nel continente africano è più alta di quanto si pensi e che – nonostante la carenza di mezzi – ci si sta muovendo con considerevoli sforzi per non farsi trovare impreparati.

Il problema vero sono piuttosto i tanti africani, lavoratori e soprattutto studenti, presenti in Cina e i cui governi non hanno intenzione e mezzi per il rimpatrio. Il presidente del Senegal Macky Sall aveva subito dichiarato che il suo paese non dispone di fondi sufficienti per inviare un volo a recuperare i connazionali. Lo stesso ha fatto da poco il governo ugandese, che invierà 61mila dollari ai 105 studenti presenti in Cina: “Non abbiamo mezzi per noleggiare un aereo e nemmeno siamo attrezzati per gestire un’eventuale epidemia”. Quindi, niente rimpatri. Decisione quanto mai faticosa. Il 5 febbraio è arrivata la notizia che un ventunenne camerunese che studia all’università di Yangtze, nella regione dell’Hubei, è risultato positivo al virus. L’annuncio ha gettato nello sconforto le famiglie dei tanti giovani promettenti che avevano scelto la Cina per perfezionare le proprie conoscenze e che ora sono bloccati lì, senza via d’uscita.

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