“I numeri… è un casino… rispondono non a logiche di correttezza, di veridicità, autorevolezza (…) non c’è un sottostante… non c’è… solo perché… per far vedere a quello che ha detto deve uscire 10… là deve uscire… allora mettono i 10…”. Così Elia Circelli, responsabile della funzione Bilancio e Amministrazione della Popolare di Bari finito a domiciliari venerdì su richiesta del gip Francesco Pellecchia, si sfogava con il responsabile internal audit Giuseppe Marella. “Ammettendo esplicitamente”, scrivono i pm, che i dati comunicati ai risparmiatori e al mercato “non rispondono ai modelli legali ma servono solo a soddisfare i desideri della famiglia“. La “famiglia” sono gli Jacobini, da più di mezzo secolo alla guida della banca commissariata lo scorso 13 dicembre. Marco e Gianluca Jacobini, rispettivamente ex presidente e vice direttore, sono anche loro ai domiciliari con le accuse a vario titolo di falso in bilancio e falso in prospetto.

Dall‘ordinanza di custodia cautelare emerge quella che il giudice, riguardo ai capi di imputazione di falso nei bilanci del 2014, 2016 e 2017 per gli avviamenti iscritti tra gli attivi patrimoniali, definisce “reiterata macroscopica e, quindi, consapevole violazione dei principi contabili”. Nell’iscrivere a bilancio il valore degli asset immateriali rappresentati da altri istituti acquisiti negli anni – tra cui l’abruzzese Tercas – sono state fornite secondo il gip “false informazioni ispirate dalla precisa volontà di rappresentare una realtà differente da quella effettiva” e “connotate da un’elevata capacità decettiva in relazione alle possibili scelte dell’ampia platea dei destinatari delle informazioni medesime”. Circelli e Marella (anche lui indagato) appaiono del tutto consapevoli di questo modus operandi e ne parlano senza giri di parole. In una loro telefonata del maggio 2017, intercettata, secondo l’accusa “a più riprese si confessa la manipolazione dei dati contabili al fine di far apparire una realtà diversa”. “Bleffano sui numeri”, lamenta Marella. “Cioè è uno schifo…”. E ancora: “Ormai non ti puoi confrontare con quelli là dei numeri… cioè c’è un’approssimazione, rispondono non a logiche di correttezza, di veridicità…”. La “logica” seguita, al contrario, è quella che i numeri vanno adeguati alla richieste della famiglia: “Deve uscire 10…allora mettono i 10”.

“Con un cucchiaio di marmellata farcita una scatola di fette biscottate”– I toni sono molto diversi ma la sostanza è la stessa in un’altra conversazione: una telefonata durante la quale Marella informa il responsabile Bilancio e Amministrazione di aver completato il lavoro sui numeri da inserire nel piano industriale e in altre comunicazioni da inoltrare agli organi di vigilanza. Circelli in quel momento si trova in compagnia di Luigi Jacobini, l’altro figlio di Marco, ex vice direttore generale dell’istituto e a sua volta indagato. L’atteggiamento di Marella cambia di conseguenza: stavolta scherza e ride. A un certo punto cita il motto della contestazione studentesca del ’68: “La culture c’est comme la confiture“, cioè “La cultura è come la marmellata“. “Meno ne hai, più la spalmi“, continuava la scritta sui muri della Sorbona. Il manager la parafrasa a modo suo: “Chi la tiene la butta a pezzi, chi non ce l’ha la spalma”. Poi, “interrompendo il colloquio con frequenti risate“, spiega: “In questo lavoro siamo stati capaci (…) con un cucchiaio di marmellata di imburrare… di farcire una scatola di fette biscottate… non abbiamo detto un cazzo, guarda…”.

Sono numerose, nella richiesta del procuratore aggiunto Roberto Rossi e dei pm Federico Perrone Capano e Savina Toscani, le intercettazioni in cui si parla di “aggiustamenti” delle poste di bilancio “evidentemente con il fine di rappresentare a terzi una situazione diversa dalla realtà”. Nel febbraio 2017, per esempio, Circelli chiama Jacobini per informarlo di avergli girato il conto economico – evidentemente quello del 2016, anno in cui si è conclusa l’integrazione di Tercas – e gli spiega: “…il risultato è quello che ci aspettavamo”. Come dire, scrivono i pm, che “è stato già predeterminato in modo che il risultato sia di segno positivo”. Gli “aggiustamenti” fatti consentono di chiudere quel bilancio con un utile d’esercizio di 4,5 milioni. Nel frattempo i crediti deteriorati netti raddoppiano, da 780 milioni a 1,4 miliardi.

Le imposte anticipate stornate dalle perdite: “Violato il principio di prudenza” – Il gip ravvisa la presenza di “gravi indizi di colpevolezza” a carico degli indagati anche riguardo all’ipotesi di reato di falso in bilancio (dal 2015 al 2018) per indebita contabilizzazione di imposte anticipate sulla perdita fiscale. E’ proprio “stornando” le attività per imposte anticipate (Dta) dalla perdita ante imposte che la banca, secondo i pm, passa dalla perdita all’utile sia nel 2016 (33,5 milioni di perdite ante imposte e 39 milioni di imposte anticipate) sia nel 2017. Secondo il giudice, i consulenti dell’accusa hanno “puntualmente evidenziato la violazione sistematica e reiterata del principio di prudenza nell’appostamento delle imposte anticipate”, mettendo in evidenza tra l’altro “l’assoluta irragionevolezza delle previsioni di rientro dalle perdite medesime”. E la “consapevole violazione” di quei criteri emerge “con prepotenza”, scrive il giudice, da un’intercettazione tra Circelli e Marco Jacobini in cui il responsabile Bilancio riferisce che per i revisori “l’importo è troppo alto, chiaramente la redditività è bassa e quindi loro vedono pericolo nel fatto che non ci possa essere reddito in grado di recuperarle”. L’ex amministratore delegato Giorgio Papa, interrogato, ha poi riferito che Circelli “era perfettamente consapevole dell’impossibilità di riassorbire le perdite prima di trent’anni, quindi in un lasso temporale di gran lunga superiore a quello suggerito dalla migliore prassi aziendale”.

Il falso in prospetto: “Vertici consapevoli dell’enormità del rischio” – Informazioni incomplete e non veritiere, a giudizio del gip, sono state fornite anche nel prospetto dell’aumento di capitale da 300 milioni del 2014 finalizzato all’acquisizione di Tercas, che avrebbe aggravato la situazione di crisi della banca. Dalle registrazioni dell‘allora direttore generale Vincenzo De Bustis, per cui il giudice ha disposto la misura cautelare interdittiva del divieto temporaneo di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari, emerge che i vertici della banca avevano “piena consapevolezza dell’enormità del rischio connesso all’operazione di salvataggio e acquisizione”. Operazione caratterizzata da “notevolissima aleatorietà” e che “certamente non poteva essere presentata agli investitori come un’iniziativa connotata da fattori di rischio ordinari“. De Bustis lo sapeva bene, e durante la riunione del cda del 17 ottobre 2013 spiegò che “la sollecitazione promossa dalla Banca d’Italia nei confronti della Banca Popolare di Bari per stimolare un suo intervento nell’operazione di salvataggio di Banca Tercas” doveva essere “attentamente filtrata” in quanto “dal punto di vista patrimoniale, Banca Tercas ha bisogno di essere ricapitalizzata con capitale fresco per recuperare l’equilibrio e raggiungere un Tier one soddisfacente; sono anche un po’ a corto di liquidità“. Non solo: nella “difficile situazione tecnico-operativa in cui versa Banca Tercas, il ritorno ad una prospettiva di redditività positiva potrebbe richiedere almeno 24/36 mesi“.

Eppure il prospetto messo a disposizione delle migliaia di risparmiatori che avrebbero comprato i titoli della Pop Bari sostiene che dall’acquisizione ci si poteva attendere nulla più di “un tipico rischio di business connesso al piano di rilancio commerciale di banche reduci dal commissariamento”. Ordinaria amministrazione, insomma. Se non bastasse, il prezzo di emissione delle nuove azioni – contestato dalla Consob che in seguito sanzionerà i vertici – era stato fissato a 9,53 euro (scontati del 6% portandolo a 8,95 euro) con metodo “arbitrario, non giustificato ed anche errato“. Il prospetto, infatti, non menzionava mai che stando alla valutazione della Deloitte la forchetta di prezzo corretta era compresa tra 8,6 e 8,9 euro. All’inizio di dicembre 2019 il valore di quei titoli – non quotati e quindi comunque difficilissimi da rivendere – era crollato a poco più di 2 euro. E ora? La maxi-ricapitalizzazione con soldi pubblici che andrà in scena nei prossimi mesi lo azzererà. Ai 70mila soci non resta che sperare in indennizzi sulla falsariga di quelli previsti per gli azionisti e obbligazionisti subordinati di Etruria & C. e delle Popolari venete.

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