Finalmente una “lingua” autentica, un romanzo che respira, coinvolge, diverte, commuove, oltre ogni ragionevole dubbio. Il treno dei bambini (Einaudi) è il terzo libro di Viola Ardone – sui primi due titoli è calato un silenzio tombale – ed è proprio come dice lei: inizio a scrivere quando una voce mi parla. A sussurrarle un anelito di vita che sembra dell’altro ieri è un bimbetto napoletano di otto anni, Amerigo, che nel 1946 lascia il suo rione per salire al Nord.

La mamma single ha accettato le sirene del Partito Comunista: far svernare al settentrione per un po’ di tempo i bimbi meno abbienti del Sud. Avvolto nell’ombra di mamma, ossessionato letterariamente dalle scarpe (bucate, nuove, comode, strette), attorniato da un’allegoria di figure femminili (la Pachiochia e la Zandragliona), Amerigo finirà a Bologna, per puro caso di nuovo con una donna single come madre, si lustrerà gli occhi modello Rocco e i suoi fratelli quando vedrà per la prima volta la neve, imparerà a suonare il violino. E quando tornerà a Napoli “spezzato in due metà” non tutto sarà come prima. Il treno dei bambini è un sollievo per l’anima in punta di penna. Scrittura agile in prima persona, ricca a livello lessicale, generatrice di un verace dialetto partenopeo (l’uso del verbo stare e tenere, l’aggettivo dopo il sostantivo), anche se “fiol” a Bologna non l’ha mai detto nemmeno una rondine di passaggio. Si butta giù in un paio d’ore. Serio candidato allo Strega 2020. Voto: 7+

Lo scaffale dei libri, la nostra rubrica settimanale: diamo i voti, da Fabio Volo a Roberto Calasso e Massimo Carlotto

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