Cinquant’anni fa, venerdì 12 dicembre 1969, poco dopo le 16:30. Siamo nel centro di Milano, a piazza Fontana. È quasi Natale e nel pomeriggio la sede della Banca nazionale dell’agricoltura è piena di gente, perché quel giorno c’è il mercato che riunisce agricoltori, allevatori e commercianti di tutta la provincia. All’improvviso un’esplosione pazzesca, una bomba: 17 morti e 86 feriti.
Incredibile, una cosa del genere non era mai successa. Ma ancor più sconvolgente è quello che accadrà nei giorni e negli anni successivi. Il 15 dicembre la Polizia arresta, dopo “approfondite indagini”, un perfetto innocente: il “mostro”, sbattuto sulle prime pagine, è un ballerino anarchico. Quella notte un altro anarchico, sospettato di essere suo complice, vola giù dal quarto piano della Questura di Milano per un “malore attivo”. E poi mesi, anni di depistaggi architettati ad arte da apparati deviati dello Stato. Un bravo poliziotto, che forse era sulla strada giusta, viene invece ingiustamente indagato e sospeso dal servizio.
Oggi, cinquant’anni dopo, conosciamo sì la verità su piazza Fontana, ma sappiamo anche che, per colpa di un gran numero di traditori, di uomini che avevano giurato fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione ma in realtà erano fedeli ad altro, tutti i responsabili di quella carneficina sono rimasti impuniti. Questo dopo il processo più lungo della storia repubblicana, durato fino al 2005, quando la Corte di Cassazione, dopo aver riconosciuto la responsabilità dei due terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura (non più condannabili perché già assolti in via definitiva) e del movimento “Ordine nuovo”, condanna al pagamento delle spese processuali i familiari delle vittime (sic!).
La strage della Banca nazionale dell’agricoltura è parte del programma eversivo di quelle forze reazionarie che non tolleravano il processo di democratizzazione che si stava realizzando a partire dalla fine degli anni Sessanta. Bisognava fermare con ogni mezzo quella impetuosa avanzata riformista. È la “strategia della tensione”, la politica fatta con le bombe da chi aveva in uggia le rivendicazioni sindacali.
“Aumentare i salari” si leggeva sui cartelli delle manifestazioni di piazza. Nella primavera del 1978, prima del suo rapimento, l’onorevole Aldo Moro dichiarerà a proposito di piazza Fontana: “Non ebbi mai dubbi, quei fatti di chiara matrice di estrema destra avevano l’obiettivo di bloccare certi sviluppi politici e di ricondurre attraverso il morso della paura a una gestione moderata del potere”. E a Moro non sfuggivano neppure le possibili “responsabilità che si collocano fuori dall’Italia”. Io direi negli Usa di Nixon, precisamente.
Ebbene l’aspetto più inquietante, con il quale non abbiamo ancora fatto pienamente i conti, è che i neofascisti colpevoli di quel crimine orribile hanno goduto, come risulta purtroppo acclarato da diverse sentenze definitive, della protezione di uomini delle Istituzioni, di poliziotti e appartenenti ai servizi segreti. L’impunità non è stata frutto del caso o della scaltrezza dei terroristi, ma è stata resa possibile dai comportamenti infedeli di uomini e apparati dello Stato. “Per anni – scrive Gianni Flamini nel saggio La Repubblica in ostaggio (Castelvecchi, 2016) – governi, servizi segreti e praticamente tutte le innumerevoli polizie nazionali hanno fatto il gioco delle tre carte con la magistratura (ovviamente con quella parte della magistratura che intendeva vederci chiaro) per impedirle di scoprire chi e perché”.
La domanda da porsi è come questo sia stato possibile. Certo a quei tempi, molti poliziotti, dirigenti e funzionari si erano formati durante il ventennio ed erano rimasti al loro posto, perché di fatto non ci fu alcuna epurazione. È facile dunque immaginare come fascisti mai congedati dallo Stato si siano prestati volentieri a operazioni eversive. Anzi è plausibile che la disponibilità a tradire la democrazia nascesse dalla “separatezza” che caratterizzava interi apparati pubblici come le forze di polizia e i servizi di sicurezza, in cui vigevano regole anacronistiche e si coltivavano sentimenti antidemocratici.
Riflessioni di questo tipo condussero negli anni Settanta a pensare a una riforma almeno della Polizia di Stato. “La costituzione del sindacato – scriverà Stefano Rodotà nel 1974 – potrebbe rendere la polizia meno disponibile per spregiudicate operazioni di potere, che nulla hanno a che fare con la tutela dei diritti dei cittadini e della legalità repubblicana”.
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