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Il fallimento fa parte del gioco. E non sempre corrisponde a una rivincita

Il fallimento fa parte del gioco. E non sempre corrisponde a una rivincita
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Di “giornate” declinate nazionalmente, internazionalmente o globalmente ne esistono ormai un numero superiore ai giorni del calendario (anche Vivere con lentezza vi ha contribuito). Premesso che ogni giorno della nostra vita dovrebbe essere affrontato come una “giornata”, cioè come un unico prezioso, scandito quotidianamente, avrete forse notato che il 13 di ottobre era proprio uno di quei giorni multigiornata dedicato rispettivamente: alle vittime del lavoro, alle persone con sindrome di Down e al fallimento, celebrato da nove anni in Finlandia (National Day for Failure).

Senza insistere sull’eccesso di giornate e non volendo creare una gerarchia tra esse, prendiamo in considerazione la questione del fallimento. In un’epoca di sfolgoranti, clamorosi e rapidissimi successi, in una società ultraperformante, il fallimento e l’insuccesso acquistano agli occhi dei più una dimensione inaccettabile, spaventosa e ultimativa. Ma proprio questa corsa al successo a ogni costo con un crescente numero di persone che non riescono a raggiungerlo spinge a cercare di capire come affrontarli e reagire.

Roberto Pavanello su La Stampa del 13 ottobre cita una serie di esempi di persone che hanno tratto insegnamento dai loro fallimenti trasformandoli in vittorie, che dovrebbero confortare chi teme disperatamente di fallire. Ma non è necessario che al fallimento corrisponda sempre la rivincita. Il rischio di fallimento potrebbe essere considerato nei nostri comportamenti e nelle nostre scelte un po’ come la bussola o come la stella polare, che indicano il cammino, il come fare e dove dirigerci o il loro contrario. Il limite del rischio sta nel male che riusciamo a farci o a fare ad altre persone.

Mario Calabresi, che nel 2009 ha scritto La fortuna non esiste, dedicato alle persone che grazie al loro talento hanno saputo rialzarsi, oggi propone di fronte al “suo fallimento” (l’esonero inaspettato dalla direzione di Repubblica) un modo diverso per reagire. Lo racconta nelle pagine del suo ultimo Il mattino dopo, utilizzando il racconto come terapia – come elaborazione del lutto – e girando l’Italia a parlarne, scoprendo ogni volta di essere una persona sinceramente amata e onestamente rispettata.

Già questo potrebbe bastare come riscatto personale. Si tratta di un altro modo di affrontare il fallimento, condividendo la riflessione con altri, senza ansie di rivalsa e soprattutto accettando che fallire fa parte del gioco, a volte tragico, della vita, che senza azione e tempo però non potrà cambiare.

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