Niente fact checking sulle dichiarazioni dei politici. È questa la posizione di Facebook, annunciata nei giorni scorsi da Nick Clegg, VP of Global Affairs and Communications intervenendo a Washington all’Atlantic Festival. La ragione della decisione – in apparente controtendenza rispetto all’impegno del social network a impegnarsi sempre di più nella guerra alle fake news specie in campagna elettorale – è spiegata con la volontà di restare terzi rispetto al dibattito politico caratterizzato, sempre, da toni e affermazioni sopra le righe.

“Per usare il tennis come analogia, il nostro compito è assicurarci che il campo sia pronto: la superficie piatta, le linee dipinte, la rete all’altezza corretta. Ma non prendiamo una racchetta e iniziamo a giocare. Il modo in cui i giocatori giocano dipende da loro, non da noi”. Parole di grande buon senso.

Ma perché questa regola dovrebbe valere solo in relazione ai discorsi pronunciati dai politici? Perché riconoscere ai politici – ammesso che i processi di fact checking di Facebook siano efficaci e capaci, quindi, di abbattere il rischio di bufale – una sorta di licenza di mentire?

Nick Clegg prova a rispondere: “So che alcune persone diranno che dovremmo andare oltre. Che abbiamo torto nel permettere ai politici di usare la nostra piattaforma per dire cose cattive o fare affermazioni false. Ma immaginate il contrario. Sarebbe accettabile per la società in generale che una società privata diventi effettivamente un arbitro autoproclamato per tutto ciò che i politici dicono? Non credo che lo sarebbe. Nelle democrazie aperte, gli elettori credono giustamente che, come regola generale, dovrebbero essere in grado di giudicare ciò che i politici si dicono”.

Ancora buon senso e, soprattutto, la consapevolezza che non dovrebbe toccare a una corporation il compito di decidere cosa è giusto e cosa non lo è, né ciò che è vero e ciò che è falso e, quindi, in ultima analisi quali contenuti lasciare accessibili nello spazio pubblico telematico e quali eliminare o, almeno, rendere più difficilmente accessibili.

Ma questi principi non dovrebbero riguardare tutta l’informazione che circola su Facebook da chiunque prodotta? Che differenza c’è tra le menzogne di un politico e quelle di un giornalista o, anche, quelle di un cittadino qualsiasi magari tanto seguito da essere in grado di orientare un dibattito più di quanto possa farlo un qualunque politico? E, poi, chi è un politico secondo Facebook? Il candidato a un’elezione? Il suo portavoce? Chiunque appartenga a un movimento politico? Un qualsiasi attivista? Un cittadino che abbia deciso di schierarsi apertamente a sostegno di un politico in una competizione elettorale o, semplicemente, di intervenire in un dibattito politico?

Tutti coloro che hanno espresso, esprimono e esprimeranno posizioni favorevoli o contrari alla Tav sono politici? I cosiddetti Vax e No Vax? I milioni di italiani che si sono schierati con Greta e il suo movimento o contro di Greta? E non è forse vero che ciascuno di loro fa politica pubblicando e condividendo i propri contenuti e influenza inesorabilmente anche i risultati elettorali?

Magari è quella giusta, ma la posizione di Facebook non convince. Non c’è ragione per riconoscere ai politici una licenza di raccontare frottole o anche semplicemente di raccontarne senza timore di vedere la propria frottola beccata da un fact checker come, invece, può accadere a un qualsiasi altro utenti della piattaforma.

Una cosa è escludere dal fact checking le opinioni politiche da chiunque espresse, opinioni che in quanto tali sono, per definizione, insuscettibili di qualsiasi verifica sulla veridicità. Una cosa è escludere dal fact checking anche i fatti sui quali si basano le opinioni ma solo se raccontati da un politico.

E, a ben vedere, la decisione di Facebook a proposito dei discorsi dei politici è la miglior cartina di tornasole del fatto che quella che abbiamo imboccato è la strada sbagliata perché quella giusta sarebbe quella che va in direzione opposta: negare a Facebook – e, naturalmente, a qualsiasi altro intermediario di contenuti prodotti da terzi – il diritto di decidere se un fatto è vero o falso, lecito o illecito, giusto o sbagliato.

Sul campo da tennis, per tornare alla metafora di Clegg, questo è il compito che spetta all’arbitro e in democrazia gli arbitri sono i giudici e le Autorità indipendenti.

Ma attenzione perché non è tutta colpa di Facebook. Siamo anche noi, sono i nostri governi a spingere Facebook e gli altri a trasformarsi in arbitri dell’informazione online, salvo poi doversi inventare eccezioni fantasiose come questa.

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