Wall Street vola. Povertà e disoccupazione sono ai minimi, secondo le stime ufficiali. I direttori finanziari delle grandi imprese sono con Trump. Un quadro roseo, che tuttavia potrebbe non durare a lungo. L’aggressiva politica commerciale degli Usa inizia a far sentire i suoi effetti sia sugli equilibri globali, allargandosi anche al commercio di servizi, sia nelle tasche dei cittadini, che a breve dovranno fare i conti con una vera e propria stangata a causa dei nuovi dazi. E se i sondaggi non sono favorevoli al presidente, segnali ancora peggiori arrivano dai differenziali dei Treasury bond, che fanno prevedere una recessione in arrivo entro il 2021. E dalla Fed, che dopo dieci anni di calma piatta ha tagliato i tassi di interesse per due volte in due mesi con l’obiettivo di stimolare la crescita e da giorni sta inondando di liquidità il mercato interbancario. Nulla di buono per l’inquilino della Casa Bianca, visto che alle prossime elezioni presidenziali, tra 14 mesi, sarà ancora una volta l’economia a deciderne le sorti.

La curva dei rendimenti dei Treasury bond nell’ultimo anno ha visto più volte un’inversione nel differenziale tra quelli a tre mesi e quelli a 10 anni. E tra agosto e settembre la distanza ha superato i 50 punti base, una performance negativa che non si verificava dal 2007. Nello stesso periodo si è registrata l’inversione anche della curva nel differenziale tra i 2 e i 10 anni, anche in questo caso un evento senza precedenti dal 2008 e un indicatore considerato tra i più accurati per prevedere una recessione. Lo scorso 4 settembre la Fed di New York ha indicato una probabilità di recessione entro 12 mesi al 38%, secondo lo spread tra i T-bond. Anche in questo caso si tratta della percentuale più alta dalla crisi del 2008. Questi indicatori hanno sempre previsto l’arrivo di una recessione, in un arco temporale tuttavia imprecisato: da pochi mesi a due anni. Per Trump, che si gioca la riconferma alla Casa Bianca nel giro di poco più di un anno, la tempistica della tempesta in arrivo può fare tutta la differenza nei risultati delle urne.

Mentre il Dow Jones fa registrare una crescita sostenuta e il S&P 500 è alle porte del massimo storico, potrebbe dunque chiudersi presto la lunga fase espansiva che secondo gli ultimi dati del Census Bureau ha fatto calare all’11,8% la quota di popolazione in povertà: il livello più basso dal 2001. Anche la disoccupazione è vicina ai minimi storici, secondo i dati ufficiali al 3,7 per cento. Si tratta però del tasso U3, che include solo chi è attivamente alla ricerca di lavoro e non i lavoratori scoraggiati o sottoimpiegati. La politica commerciale di Washington sarà decisiva per determinare gli equilibri che porteranno alle prossime elezioni. Nel 1992 il mantra della campagna di Bill Clinton fu: “It’s the economy, stupid!”, nel contesto recessivo che pure vide una debole ripresa economica prima delle elezioni. Ora con la guerra dei dazi, che sta allargando i suoi effetti anche al commercio globale di servizi con una riduzione di cinque punti rispetto a un anno fa in un settore che comprende finanza e trasporto aereo e vale due terzi dell’economia Usa, il conto per le famiglie e le imprese americane potrebbe essere salato e rivelarsi un boomerang per il presidente in carica.

Le imposte del 15% che sono scattate a settembre sulle importazioni cinesi vanno ad applicarsi a beni per un valore di 112 miliardi di dollari, tra cui abbigliamento, calzature, prodotti tecnologici come le televisioni. Un altro 15% è previsto per dicembre e andrà ad applicarsi su telefoni, laptop, videogiochi, e ulteriore abbigliamento, per un valore complessivo di 160 miliardi di dollari. In più, dal 15 ottobre, dopo un rinvio distensivo di due settimane accordato da Trump per il 70esimo anniversario della Repubblica Popolare, altri beni di importazione cinese per 250 miliardi verranno tassati al 30% dal precedente 25 per cento. Secondo Jp Morgan queste azioni costeranno alle famiglie a stelle e strisce circa 1.000 dollari all’anno, ma il conto potrebbe essere più salato perché calcolato su dazi al 10% invece che al 15. Le nuove misure vanno a colpire direttamente i beni di consumo, quindi i cittadini, e non più solo le merci destinate alle imprese. L’Europa è già da tempo nel mirino, a seguito della querelle Boeing-Airbus, che per il Wto ha visto tutti colpevoli. Trump ha già pronti dazi del 100% che potrebbero colpire beni per 25 miliardi di dollari, dall’alimentare – su prodotti come vini, olio, salumi, formaggi – fino a beni di lusso e gioielli. Tra il 21 e il 27 settembre il primo ministro indiano Narendra Modi, negli Usa per seguire i lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha annunciato che incontrerà il presidente Usa con cui ha intenzione di ridiscutere i dazi su acciaio e alluminio e provare a ripristinare il Sistema di preferenze generalizzate per l’India, rimosso da Trump lo scorso giugno. Via libera invece a un accordo commerciale con il Giappone, che dovrebbe comprendere prodotti agricoli e beni industriali, ma non riguarderà il comparto automobilistico.

In un’indagine condotta da Cnbc tra i direttori finanziari di 62 grandi imprese, Trump resta favorito per essere confermato alla Casa Bianca, indicato da oltre due terzi del campione, mentre l’ex vice presidente Joe Biden raccoglie il favore solo di un quarto degli intervistati. Tuttavia la visione dei cittadini appare molto diversa e i sondaggi evidenziano le difficoltà del presidente in carica. Le ultime stime di FiveThirtyEight, che con una meta-analisi raccoglie tutte le indagini effettuate in Usa, indicano che solo il 41,8% approva l’operato del presidente, contro un 53,8% che lo disapprova. Un’indagine condotta da Priorities, il più grande political action committee democratico, mostra che in 5 swing states – Florida, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin – per la prima volta la percentuale di chi boccia le politiche economiche di Trump ha superato il 50 per cento. In questi Stati la questione più importante è la sanità, un tema di natura economica perché collegato a costi e accessibilità. Un’altra indagine condotta in Arizona, Florida, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Texas da Public Policy Polling, istituto vicino ai democratici, conferma queste conclusioni: il 68% è preoccupato di perdere la propria copertura sanitaria se l’Affordable Care Act verrà smantellato.

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