“Siamo già al lavoro per individuare tutte le misure per tradurre in pratica il Green New Deal, la nostra rivoluzione verde. Sarà una strada lunga che il ministero percorrerà insieme alle aziende, raccogliendo le loro idee”. Il nuovo ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha già lanciato la convocazione. Obiettivo: definire chi avrà diritto agli incentivi per investimenti “a fini ambientali” che il governo giallorosso spera di poter scorporare dal deficit. Ma quali settori e quali imprese hanno le carte in regola per essere invitate al tavolo? Ilfattoquotidiano.it ha provato a capirlo con l’aiuto degli addetti ai lavori. Scoprendo che i casi eccellenti di economia circolare – quella che punta sul riutilizzo e riduce al minimo sprechi e rifiuti – sono trasversali: se ne trovano nell’agroalimentare, nella moda ma pure in comparti tradizionalmente tutt’altro che green come il packaging e i materiali da costruzione. L’Italia ha punte di diamante anche nella chimica verde, nella carta riciclata, nella componentistica auto per ridurre le emissioni, nelle tecnologie per la climatizzazione. In compenso ha perso il treno della produzione di pannelli fotovoltaici e pale eoliche. E ora è a un bivio: secondo l’Enea, se non investiamo di più rischiamo di perdere il vantaggio di competitività di cui oggi godiamo grazie a una tradizione produttiva “circolare” ante litteram. Al contrario, stando alle stime della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, un ambizioso piano green garantirebbe nei prossimi cinque anni oltre 2 milioni di posti di lavoro aggiuntivi e un aumento del pil di 370 miliardi.

Plastica sì, ma bio – Il rapporto Greenitaly 2018 individua nelle quattro A del made in Italy (agroalimentare, arredamento, automazione, abbigliamento) i settori verdi del nostro Paese. “Ma fare una distinzione netta tra settori “green” e “non green” è impossibile”, premette Fabio Iraldo, che insegna Gestione ambientale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e dirige la ricerca all’Istituto di Economia e politica dell’energia e dell’ambiente della Bocconi, dove coordina il tavolo sulle strategie aziendali nella green economy. “Per identificare imprese e comparti da premiare bisogna guardare dove investono. E incentivare chi punta su tecnologie, processi o prodotti che garantiscono un miglioramento ambientale significativo rispetto all’esistente”.

All’identikit corrisponde per esempio “il settore degli imballaggi plastici: aziende che avevano sempre lavorato materiali derivati dal petrolio ora stanno investendo massicciamente nell’utilizzo di materiale riciclato, biopolimeri o plastiche biodegradabili. A fare da apripista è stata Novamont“. Nata come costola di Montedison, ora è tra i maggiori produttori mondiali di bioplastiche compostabili: partendo da scarti e oli vegetali e mais produce fa sacchetti per la spesa, piatti e posate, imballaggi, capsule da caffè. E da tre anni anche il corrispettivo “bio” del butandiolo, composto derivato da carburanti fossili che si usa come solvente e materia prima per la plastica. A Porto Torres poi Matrica, joint venture tra Novamont e Versalis (Eni), lavora oli vegetali per ottenere acidi da utilizzare nella cosmetica e nella produzione di lubrificanti, additivi e bioplastiche. Eni, che lo scorso anno attraverso Versalis ha rilevato le attività nella chimica verde del gruppo Mossi & Ghisolfi finito in concordato, produce poi biocarburanti nella ex raffineria di Porto Marghera riconvertita alla trasformazione di materie prime vegetali. Stando a un rapporto ad hoc presentato a Ecomondo 2017, l’Italia è prima in Europa per fatturato pro capite e seconda dopo la Germania in valori assoluti nel settore dello sviluppo di prodotti basati su processi biologici, come bioplastiche o tessuti realizzati a partire da residui, materie prime considerate di scarso valore o sottoprodotti di altre lavorazioni.

Tra le eccellenze carta e abiti da fibra riciclata – Un altro comparto in cui l’Italia ha eccellenze a livello europeo, racconta l’esperto, è quello della carta e dei prodotti derivati, come rotoloni e fazzoletti: “Da un paio d’anni produciamo più carta da fibra riciclata che da fibra vergine, una situazione unica”. Poi c’è l’agroalimentare, in cui accanto ai progetti di grandi aziende come Barilla per recuperare i sottoprodotti della lavorazione vanno segnalati il primato nell’export di prodotti agricoli biodinamici e le tante imprese agricole biologiche con un modello di gestione a ciclo chiuso – quindi virtuoso – e idee innovative. Nel mantovano ad esempio l’azienda agricola Chiesa Virginio produce bioresina naturale ottenuta dalla cutina, una sostanza estratta dalle bucce di pomodoro. Discorso simile nel tessile-abbigliamento: da un lato le innovazioni green dei grandi marchi, dall’altro la tradizione, “con nicchie eccellenti come il distretto di Prato che produce il 15% degli abiti da fibra riciclata realizzati nel mondo“. E tante storie di economia circolare basata su collaborazioni di filiera: Centrocot e l’Unione industriali di Varese hanno ad esempio sviluppato due progetti per promuovere lo scambio e il riutilizzo di rifiuti industriali tra imprese. Nel Bergamasco Radici Group ha contribuito a mettere a punto un gilet in nylon al 100%, facilmente riciclabile a fine vita in tecnopolimeri destinati a usi tecnici e industriali. Giovanardi, azienda mantovana che produce tende da sole, ha realizzato un tessuto ottenuto dal riciclo di scarti di lavorazione generati dal confezionamento dei tendaggi.

Dal calcestruzzo alle piastrelle sostenibili – Altri settori promettono bene anche se stanno ancora inseguendo i “primi della classe”: dalla cosmetica al comparto dei materiali da costruzione. Cruciale perché l’edilizia è considerata prioritaria nella strategia europea per l’economia circolare e la proposta di Piano nazionale integrato su energia e clima inviata a marzo alla Commissione Ue prevede che residenziale e terziario diano di gran lunga il contributo più significativo alla decarbonizzazione del Paese. Iraldo cita il gruppo Mapei, che ha sviluppato un additivo per trasformare il calcestruzzo inutilizzato in cantiere in un aggregato riciclabile per produrre nuovo calcestruzzo invece che mandarlo in discarica, e le aziende del distretto di Sassuolo che con nuove tecnologie stanno abbattendo gli inquinanti nel processo di produzione delle piastrelle. Il rapporto Greenitaly cita anche il distretto ceramico di Civita Castellana, che si distingue da anni per l’innovativo impianto di recupero del gesso, e la Ecomat di Misano Adriatico che realizza rivestimenti per pavimentazioni a base d’acqua impiegando materiali di riciclo e completamente riciclabili come inerti, marmo, cotto, madreperla, vetro, specchi, bottiglie e lampadine. E fa notare che siamo all’avanguardia per tasso di circolarità nel settore dell’arredamento: il fiore all’occhiello è il pannello truciolare italiano, fatto con tecniche che permettono di utilizzare una percentuale di legno riciclato superiore alla media europea.

Tornando all’edilizia in senso stretto, l’Alto Adige ha fatto da apripista nella diffusione di edifici “a energia quasi zero” – con fabbisogno quasi nullo e coperto in gran parte da fonti rinnovabili – e vanta progetti innovativi come quello di riqualificazione energetica di alcuni quartieri di Bolzano in collaborazione con Eurac Research, l’agenzia CasaClima e Alperia. Ma oggi in testa c’è la Lombardia dove già dal 2016 tutti gli edifici di nuova costruzione o soggetti a ristrutturazione importante devono essere a energia quasi zero.

La meccanica che piace ai produttori di auto tedeschi – E la meccanica, il cui export vale ben più di quello di cibo e moda? “Lì a indirizzare le logiche di investimento sono i clienti finali”, spiega Iraldo, “e questo spiega perché tra i più attenti alle tecnologie a basso impatto ci siano i produttori di componenti e accessori per auto“. Da Brembo a nomi meno noti ai non addetti ai lavori come Losma, che da 45 anni produce impianti di filtraggio dell’aria usati nelle fabbriche. Servono per evitare che gli operai respirino inquinanti oleosi, riducono il rischio di incidenti e in più recuperano l’olio “restituendolo” alla macchina che l’ha emesso. Tra i clienti, oltre a Fca, ci sono diversi gruppi dell’auto tedeschi. E il 60% della produzione viene venduto all’estero. Il bicchiere invece è mezzo vuoto se si guarda alle tecnologie per sfruttare l’energia rinnovabile: “Agli albori della produzione di pannelli fotovoltaici o pale eoliche avevamo aziende all’avanguardia”, ricorda Iraldo. Poi, complice un sistema di incentivi sbagliato, “i nostri produttori sono rimasti spiazzati mentre quelli del nord Europa hanno recuperato il gap superandoci”.

In compenso è fortissima per quote di export la nicchia dei sistemi di climatizzazione ibridi che combinano caldaie a condensazione a basso consumo, pannelli solari e pompe di calore. “L’Italia è seconda dopo la Germania come mercato di riferimento e volumi di produzione”, quantifica Federico Musazzi di Assotermica, che riunisce i produttori di apparecchi e componenti per impianti termici. Merito anche delle detrazioni per gli interventi di riqualificazione energetica introdotti nel 2007, finora sempre prorogati. Mentre ha molto beneficiato del piano Industria 4.0, investendo anche nel risparmio energetico e nella riduzione degli scarti di lavorazione, il settore delle macchine utensili, dei robot e dell’automazione. “Usiamo solo energia fotovoltaica e da qualche anno produciamo presse con sistemi di recupero che consumano il 30% in meno rispetto a quelle standard: in Svezia, Finlandia e Germania vanno molto bene”, racconta Massimo Carboniero, numero uno di Omera oltre che presidente dell’associazione di categoria Ucimu.

Il ricercatore Enea: “Viviamo di rendita, ma non durerà” – I dati dicono che i casi virtuosi non sono eccezioni: secondo il rapporto della Fondazione Symbola I.t.a.l.i.a 2019, sono oltre 345mila le imprese italiane dell’industria e dei servizi che tra 2014 e 2018 hanno investito in prodotti e tecnologie green. In pratica una su quattro, il 24,9% dell’imprenditoria extra-agricola. Nel manifatturiero la quota sale a quasi una su tre. E chi ha fatto questa scelta ci ha guadagnato in competitività: il 34% dichiara un incremento dell’export, contro il 27% di chi non ha fatto eco-investimenti. Il problema è che parliamo comunque una minoranza. “Su indicatori come fatturato, occupazione e brevetti siamo allineati alle grandi economie. Ma se invece andiamo a guardare gli investimenti, sia privati che pubblici, siamo lontani. Rientriamo tra i Paesi di seconda fascia“, avverte Roberto Morabito, direttore del Dipartimento sostenibilità di Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile.

Gli indicatori del rapporto sull’economia circolare in Italia del 2019, a cui Enea ha collaborato, ci vedono ai primi posti nel confronto con gli altri grandi Paesi europei, ma è il frutto di “un approccio e modo di fare impresa che si sposa con i principi dell’economia circolare”. Insomma, “siamo un Paese altamente competitivo per tradizione, ma attualmente il sistema non aiuta”. In alcuni aspetti, come l’efficienza energetica, siamo già stati superati da Francia, Germania e Regno Unito. Morale: “Viviamo di rendita per la nostra capacità innovativa e il nostro modo di fare impresa. Ma quanto durerà?”. Domanda che sorge spontanea quando si scopre, per esempio, che mancano ancora all’appello molti decreti ministeriali sul cosiddetto “end of waste, necessari per definire quando un rifiuto riciclato cessa di essere rifiuto e può essere nuovamente utilizzato come materia prima. E senza certezza normativa gli incentivi servono a poco. Ora resta da vedere se l’annunciato “piano verde” del governo sarà sufficientemente ambizioso. Questione di risorse, di deficit, di flessibilità. La palla, dunque, è nel campo di Bruxelles. Dove da novembre, per la prima volta, la Commissione avrà un vicepresidente con delega al Green deal.

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