Onorevole Di Maio, non ci conosciamo: Lei è un giovane campano baldanzoso ed energico di 32 anni, io un vecchio lombardo (però ancora un poco vispotto) di 81 anni.

Seguo il Movimento da anni. Le mie origini sono un po’ comiche: leghista convinto nei 1994 (ma nel 1998 abbandonai il mio amico Umberto Bossi), di area socialista-piddina poi, memore e affascinato anche dalla grande classe e onestà rigorosa dei grandi vecchi del Pci.

Beppe Grillo era riuscito a toccare corde profonde nel Paese: mi ricordavano “Giustizia & Libertà”. Così come allora G&L viveva in antagonismo profondo con le ingiustizie e le violenze nazifasciste, allo stesso modo Grillo scuoteva gli animi toccando le corde profonde della insopportabile e squalificata compagnia politica dell’Italia di allora (la stessa di oggi): una realtà che si è formata proprio sfruttando il lato perverso della democrazia (quello delle ‘tessere’ di partito per la conquista del potere).

Ci fu poi la magica figura di Dario Fo, intelligente, onesta, aliena da ogni forma seppur larvata di ricerca di potere: da sola era una garanzia di pulizia, di cultura, di un futuro politico diverso, di una speranza incrollabile nei valori della convivenza civile e dell’etica politica.

Poi… ‘via!’ dal pensiero all’azione. E il ‘Movimento’ sceglie Luigi Di Maio: un giovane buttato allo sbaraglio in un agone politico a dir poco feroce, da sempre immorale. No, non fu un gran regalo: anzi, come si dice a Torino, un badeau da far tremare i polsi.

Già, l’ondata popolare di speranze rivolta al M5S fu tale per cui, all’improvviso e in quattro e quattr’otto, il Movimento fu costretto a formare un partito da buttare nella mischia elettorale e operativa e, allo stesso tempo, a raccogliere un mandato di peso: il tutto senza una organizzazione partitica sul territorio, senza poter conoscere bene gli uomini da mandare al governo, con la gravissima spada di Damocle di finire col deludere speranze che mai come allora si erano espresse con tanta limpidezza e serietà.

Adesso tutti se lo scordano: ma tutto questo lavoro pazzesco fu sulle sole spalle di Luigi Di Maio. Quello che si definiva ‘suo fratello gemello’, Alessandro Di Battista, se ne andò in Centramerica, in omaggio a un calcolo politico che pochissimi capirono e credettero di capire: rimase solo. Dalle urne un guaio grosso: tre blocchi significativi di voti, M5S il più grosso, l’uno contro l’altro armato: niente maggioranze possibili con questa legge elettorale. Un successo elettorale strepitoso prodromo a un esito inutile. Non si poteva, con le teste tarlate di sempre, fare nulla: il successo M5S da buttare al gatto.

Ma, come diceva la buonanima, memento audere semper, osare l’inosabile… E il Movimento osò, e fu Luigi Di Maio a vincere l’impotenza delle urne ideando la via d’uscita dall’impasse: il trucco del contratto e la Lega accettò. Per noi, italici delusi dalla politica, fu una soluzione straordinaria: e nacque il governo giallo-verde che solo la stoltaggine di Matteo Salvini condusse a morte prematura: ma fu un governo che “produsse” più politica di tantissimi governi precedenti.

Per Luigi Di Maio è un bel palmares, non c’è dubbio. Ma c’è di più. Il tarlo antico della politica italiana, quello della corruzione, non cessò di esercitare la sua tragica arte. Il M5S ne fu risparmiato: ci furono pochissimi casi (uno o due) nei quali Di Maio intervenne con polso molto fermo senza ricorrere alla fascinosa litania del ‘siamo garantisti’, evocata subdolamente anche in campo politico. La Lega ci cascò appieno e anche Salvini attende con paura eventuali sviluppi che lo potrebbero associare ai Siri e agli Arata e compagnia cantante.

Poi Salvini, stolto e goffo, provoca il patatrac: forse è la fine della sua carriera politica.

Restava però l’ostacolo più duro, la ricerca di una intesa col Pd: che, lo si voglia o no – lo dice uno che ha contribuito silenziosamente a fondarlo e che ci aveva riposto tante speranze – appare la sede delle più spudorate politiche protettive del potere, il partito del Pil, il partito delle coltellate fraterne, vera chiesa della sub-politica italiana: un partito che con mio dispiacere profondo non mi permise di scorgere azioni fatte per la gente italiana, nella tutela dei suoi interessi alla luce di progetti politici di respiro lungo, profondo. “Professionisti del potere” dice Gianluigi Paragone: e su questo punto (forse il solo) concordo pienamente con lui.

Un racconto da far saltare i nervi a un elefante: e l’elefante si chiama Luigi Di Maio. Oggi lo sport nazionale è di dargli addosso: siamo o non siamo italiani? E’ uno sport antico: odioso. Luigi Di Maio merita un grazie, un vai avanti, un tieni duro, perché abbiamo molto ma molto bisogno di te. Banzai Luigi.

SALVIMAIO

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