Una “operazione interpretativa” e “addomesticata” le cui accuse formulate “non possono logicamente desumersi dagli ulteriori dati indiziari“. Da parte dei giudici ci sarebbe stata “l’applicazione di una sorta di proprietà transitiva” che necessitava “di adeguata verifica”. Tradotto: le accuse a Marcello De Vito e al suo ex socio, l’avvocato Camillo Mezzacapo, non reggono. La Cassazione smonta così l’impianto accusatorio nei confronti del presidente (sospeso) dell’Assemblea capitolina, arrestato il 20 marzo scorso nell’ambito di un filone parallelo all’inchiesta sulla realizzazione dello stadio dell’As Roma, in capo alla Procura di Roma. “Continuerò a difendere la mia innocenza, la mia reputazione e la mia onestà in ogni sede, sempre con la dignità che mi contraddistingue dagli altri miei colleghi, che senza scrupolo alcuno fanno comodi proclami senza dimostrare fiducia, garantismo e senza nemmeno il coraggio di autocritica“, ha fatto sapere De Vito in serata.

L’esponente storico del M5s romano, già candidato sindaco nel 2013 contro Ignazio Marino e poi eletto in Consiglio comunale con il record di preferenze nel 2016, è ai domiciliari dal 5 luglio, dopo aver passato oltre 3 mesi al carcere di Regina Coeli. La Suprema Corte ha annullato l’ordinanza del gip – dunque anche la custodia cautelare – e rimandato le carte al tribunale del Riesame. L’udienza è stata calendarizzata per il 10 settembre. “Se non si ci sarà un nuovo provvedimento, con ulteriori argomenti, per Marcello De Vito e Camillo Mezzacapo cadranno anche gli arresti domiciliari”, ha riferito a Ilfattoquotidiano.it il legale del pentastellato, Angelo Di Lorenzo. Con le stesse motivazioni, devono essere riviste anche le posizioni di Fortunato Pittito e Gianluca Bardelli, indagati nell’ambito della stessa inchiesta.

L’affare Acea-Ecogena e il business park – L’atto di 31 pagine emesso dalla sesta sezione penale e firmato dal presidente Pierluigi Di Stefano, mette in forte dubbio l’intera operazione “congiunzione astrale“, parlando di “plurime ed evidenti censure sul piano della linearità” e di “vizio di motivazione“. Sono diversi i punti sui quali la Corte suprema basa le sue motivazioni. Il primo riguarda le “impressioni personalistiche” che Luca Parnasi – il costruttore titolare di Eurnova Spa e principale indagato insieme all’ex facilitatore del Campidoglio, Luca Lanzalone – relative al presunto interesse di De Vito al conferimento di incarichi al suo socio, Mezzacapo, non sarebbero desumibili da atti indiziari sufficienti.

L’unico incarico effettivamente assegnato da Parnasi riguarda la cosiddetta transazione Acea-Ecogena, prologo all’affare che avrebbe dovuto far trasferita la multi-utility capitolina all’interno del business park da realizzare nell’area limitrofa al futuro stadio della Roma. Ma qui emergono degli “enunciati contraddittori“, perché da una parte si parla dell’irrilevanza della presenza di Virginia Vecchiarelli, cognata di Mezzacapo, e dall’altra si fa riferimento alle dichiarazioni del costruttore che sottolineano il “ruolo molto importante nella transazione con Acea” svolto dal legale. Rispetto a questa vicenda, secondo la Corte, il Riesame non avrebbe dato la giusta rilevanza alle giustificazioni fornite in relazione ai bonifici incassati da De Vito, relativi a “incarichi professionali svolti in precedenza“.

Il ruolo di De Vito e l’ok della giunta Raggi – L’altra grande accusa all’esponente pentastellato riguarda il ruolo politico che avrebbe avuto in maggioranza per spingere, in qualche modo, il progetto dello stadio della Roma. Determinante la seduta dell’Assemblea capitolina del 14 giugno 2017, regolarmente presieduta da De Vito, che ha espresso il proprio parere favorevole all’approvazione del progetto di Tor di Valle, con le connesse varianti al piano regolatore generale. “L’assunto – scrivono i giudici – risulta gravemente insufficiente sul piano della motivazione”. La Cassazione, infatti, ricostruisce come quello sia stato “l’esito di un già apprezzabile iter procedurale, scandito, dopo la presentazione del progetto oltre tre anni prima, sotto la sindacatura Marino, ed una prima dichiarazione di pubblico interesse dell’opera da parte della Giunta del tempo”, e per giunta con una “convergente dichiarazione pubblica in tal senso della sindaca”, Virginia Raggi.

Il tutto, si legge nelle motivazioni, “in assenza di qualsivoglia indice probatorio, di un inopinato mutamento di linea da parte della maggioranza consiliare e di un’attività, da parte di De Vito, finalizzata a scongiurare siffatta (allo stato del tutto congetturale) ipotesi”. Tradotto: De Vito non ha avuto bisogno di convincere nessuno, perché l’amministrazione, con in testa Virginia Raggi era già determinata a fare lo stadio. C’era, infatti, “il già palesato favore” della maggioranza, “essendo rimasti peraltro inesplorati eventuali profili di contrarietà all’interesse pubblico del complessivo progetto”.

L’ex fiera di Roma e la “delibera Berdini” – L’altro punto cardine dell’inchiesta riguardava la presunta corruzione sulla partita dell’ex fiera di Roma, dove Parnasi avrebbe voluto realizzare una cittadella dello sport e della musica. Secondo i pm, vie era stata una “totale messa a disposizione della pubblica funzione da parte di De Vito”, rilevante in funzione della “necessità, dichiarata dallo stesso Parnasi, di superare la delibera che aveva determinato una limitazione delle cubature realizzabili”. L’impianto accusatorio, tuttavia, “riconduce la vicenda in esame al medesimo accordo corruttivo che assume esistente a monte ed alle identiche utilità”. Un accordo corruttivo per il quale, secondo la Cassazione, “non viene fornito alcun elemento concreto”.

E non è tutto. Bisogna anche tenere conto che “la soluzione proposta da Parnasi si basa sulla ritenuta applicabilità al caso di specie di una fonte normativa di rango superiore“, ovvero il decreto legge 50 del 2017 – che sposta “il piano di valutazione su un terreno di tipo squisitamente giuridico”. E qui, la Corte ricorda che “il paradigma della corruzione richiede che l’atto oggetto di mercimonio rientri nelle specifiche competenze del pubblico ufficiale corrotto, ovvero comunque nella sfera d’influenza dell’ufficio cui il predetto è assegnato”. In sostanze, se vengo corrotto, devo avere la possibilità materiale di portare a termine la corruzione. E, a quanto scrive la Corte, ciò non era chiaramente nelle possibilità del pentastellato.

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