“Qui è tutto fermo, non riparte niente. E a ogni scossa, ancora, il cuore salta in gola”. L’orologio nelle aree colpite dal sisma del centro Italia sembra essersi fermato alle 3,36 del 24 agosto 2016. Sono passati tre anni da allora, ma tutto procede a ritmi lentissimi. Quando procede: in alcuni posti le situazioni sembrano ancora quelle della fase immediatamente successiva all’emergenza: a Castelluccio di Norcia le Soluzioni abitative d’emergenza appena consegnate sono inutilizzabili perché “mancano gli allacci”, a Tolentino – unico Comune del cratere a rifiutare le Sae – 250 persone, più che altro anziani o famiglie numerose, vivono ancora nei container, stanze di 2,5 metri per 5, con bagni, docce e mensa in comune. In tutto sono quasi 50mila le persone che tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo tuttora fuori dalla propria abitazione, tra prefabbricati (le “Sae” appunto), alberghi o in affitto con contributo dello Stato. A rallentare la ricostruzione, così come la rimozione delle macerie, “è la burocrazia”, sostengono in molti tra sindaci e cittadini, ancora in attesa di capire se riceveranno o meno il contributo alla ricostruzione. Per il commissario straordinario Piero Farabollini, però, sentito dal fattoquotidiano.it, il problema è “la volontà” di chi ancora non ha presentato la domanda di contributo. Le richieste che, secondo l’Ufficio del commissario straordinario alla ricostruzione, dovranno ancora arrivare dalle quattro regioni colpite sono ancora poco meno di 80mila, solo 2967 accolte al 31 maggio 2019. Di questo passo ci vorrebbero quasi 80 anni per vagliarle tutte.

Il popolo dei 50mila sfollati
La fotografia che viene fuori dai dati diffusi dall’Ufficio speciale per la ricostruzione del Dipartimento della Protezione Civile è impietosa. Delle oltre 581mila persone che al 31 luglio 2016 risultavano residenti nell’area del cratere, una superficie che si estende per 7929 chilometri, 49.322 non sono ancora rientrate nelle loro case. Alcuni vivono nelle Sae, le soluzioni abitative d’emergenza, cioè casette, piccole e spesso con svariati problemi, dalle muffe all’assenza degli allacci necessari per luce, gas e acqua. In tutto sono 8108, oltre la metà solo nelle Marche. Sono 1374, invece, i terremotati che da tre anni vivono nelle strutture ricettive, bed and breakfast o hotel che hanno resistito alle scosse, oppure dislocati lungo la costa. Nei container, soluzioni che dovevano essere solo emergenziali, ad oggi sono rimasti in 507. Un numero non certo altissimo ma significativo soprattutto perché, come spiegano alcune associazioni di cittadini, le “condizioni di vita” tolgono “qualsiasi umanità”. La maggior parte degli sfollati – oltre 38mila persone – percepisce il Cas: il contributo di autonoma sistemazione. Un assegno, cioè, con cadenza mensile o bimestrale, erogato ai terremotati che hanno trovato soluzioni in affitto che può arrivare anche a 900 euro a famiglia. La spesa per lo Stato è enorme: facendo i calcoli a ribasso, circa 7 milioni di euro al mese. L’alternativa è ovvia, secondo Farabollini: “Riconsegnare presto le case a chi presenta richiesta di contributo per la ricostruzione”.

E tre anni dopo restano ancora le macerie
Se si viaggia tra i luoghi del terremoto, da Accumoli, ad Arquata, passando per Visso, saltano all’occhio soprattutto le macerie. Sono oltre 2 milioni e mezzo le tonnellate che le Regioni hanno detto di dover smaltire, ma ad oggi solo i due terzi sono stati rimossi: 797mila tonnellate, invece, sono ancora lì, da portar via, di cui oltre la metà solo nelle Marche e 220mila nel Lazio. Il problema, secondo il commissario, sta anche nella scelta dei proprietari che “chiedono di essere presenti per il recupero di effetti personali”, prima dello spostamento delle macerie.

La ricostruzione a rilento
Ma sulle migliaia di sfollati pesa soprattutto la lentezza della ricostruzione. Alcuni paesi, come Pescara del Tronto, non risorgeranno mai. O meglio, saranno ricostruiti, tempi permettendo, ma delocalizzati. L’incertezza più grande è quella dettata dalla burocrazia. Anche se, assicura Farabollini, succeduto a Vasco Errani e a Paola De Micheli, nell’ultimo anno molte situazioni sono state sbloccate. “Sono stato il primo commissario ad incontrare tutti, ma proprio tutti – spiega al fattoquotidiano.it – e ad aprire un tavolo tecnico. Abbiamo sbloccato ben più di un cantiere della ricostruzione delle scuole, risolvendo anche contenziosi ed emanando l’ordinanza per snellire la ricostruzione delle chiese, vero volano dell’economia turistica appenninica oltre che fulcro delle comunità. Abbiamo fatto la prima fotografia reale dello stato dell’arte per fare del monitoraggio degli interventi non il punto di arrivo ma di partenza dell’analisi dei colli di bottiglia”.

In tre anni, comunque, sono state presentate solo 11230 richieste di contributo alla ricostruzione nel privato, 2788 delle quali accolte. Il ritmo è lento e mancano ancora 114mila schede di agibilità e danno da analizzare, tra quelle redatte dal Dipartimento di protezione civile e quelle private. Secondo l’Ufficio speciale per la ricostruzione di queste 34816 daranno esito di agibilità mentre le altre, quasi 80mila tra quelle dentro il cratere e quelle fuori, finiranno nel mucchio delle richieste potenziali per il contributo alla ricostruzione. Di questo passo potrebbe volerci poco meno di un secolo a smaltire tutte le domande.

Il commissario: “All’inizio cattiva gestione, il primo decreto fu un ostacolo”
Un problema che per il commissario Farabollini è dovuto alle decisioni prese immediatamente dopo il sisma. “Si è scelto di gestire la ricostruzione con norme ordinarie, governance e competenze frammentate – spiega – Il decreto 189 del 2016 paradossalmente si è rivelato il primo ostacolo ad una visione organica della ricostruzione in senso strategico ed operativo. Tra l’altro, ha impostato la ricostruzione dei borghi appenninici sul modello di quella dei capannoni industriali dell’Emilia Romagna adottando in blocco il modello “sisma 2012” con tutte le conseguenze del caso”. Un’impasse che, specifica Farabollini, nell’ultimo anno si è cercato di superare, partendo dalle “norme per risolvere le piccole difformità edilizie fino al decreto sblocca cantieri di cui vedremo gli effetti partire dai prossimi mesi”.

Per la ricostruzione saranno spesi miliardi di euro. Ventidue quelli previsti dal Dipartimento di protezione civile. Ad oggi però sono stati stanziati solo poco meno di 2 miliardi, di cui 2 miliardi e 160 milioni per 2300 interventi nella ricostruzione pubblica e 200 milioni per quella privata, finanziata con credito d’imposta a mano a mano che le richieste di Contributo vengono accolte dagli Uffici speciali per la ricostruzione. Insomma tutto sembra ancora fermo, come ha sottolineato il vescovo di Rieti. “È finito il tempo dell’ascolto, ma è il momento di prendere decisioni concrete”, ha detto monsignor Domenico Pompili alla vigilia dell’anniversario.

Legambiente: “Colpa della politica, il prossimo governo ne faccia una priorità”
Di una ricostruzione a singhiozzo che procede lentamente parla anche Legambiente, da tre anni insieme a Cgil Fillea promotrice dell’Osservatorio Sisma, che sottolinea il rimpallo di responsabilità a livello istituzionale. Una responsabilità che, secondo il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, non è tanto della burocrazia, quanto della politica. “Con la crisi di governo si rischia un ulteriore stallo – prosegue il presidente – È necessario che il prossimo esecutivo abbia in agenda l’accelerazione di una ricostruzione di qualità, innovativa, trasparente, rispettosa dell’ambiente, del territorio e del lavoro”. Dalla prima scossa sono passati tre governi passati dalla prima scossa: Renzi, Gentiloni e Conte. Il rischio è che ora un altro esecutivo crei ulteriore discontinuità, magari con un altro cambio del commissario. Farabollini, docente di Geologia all’università di Camerino, fu nominato dal governo Conte. “Sono stato scelto perché sono un tecnico esperto – dice – e si voleva dare un approccio tecnico alla ricostruzione dopo che quello politico non aveva dato i frutti sperati. Se verrà fatta un’altra scelta ne prenderò atto”.

Ad oggi, denuncia poi l’Osservatorio sisma, non esiste un monitoraggio complessivo della ricostruzione né della raccolta e gestione delle macerie. Ogni Regione, infatti, elabora i dati a parte che poi vengono aggregati dall’Ufficio speciale nazionale, ma spesso “usano metodi di elaborazione diversi”. “Siamo caduti in un circolo vizioso: la ricostruzione fa fatica a partire, i progetti presentati sono pochi, quindi si concedono le proroghe – dell’emergenza, dei termini di presentazione delle domande di contributo – che non fanno che alimentare la richiesta e l’attesa di un’altra proroga o di un altro intervento normativo”, denuncia ancora Legambiente. Il rischio, così come dicono anche i molti terremotati resilienti, è quello dello spopolamento dell’Appennino centrale. “Senza una visione di futuro, è probabile che fra due o tre decenni le case siano di nuovo in piedi ma nella desertificazione sociale ed economica”.

Sonia, la fattoria e la paura dell’isolamento: “Dal 2016 non vediamo nessuno”
“Noi abbiamo scelto di rimanere perché abbiamo due fattorie con oltre 100 animali e abbandonarli non era possibile. E soprattutto eravamo attaccati al territorio”. Così, tra le lacrime, Sonia Girolami racconta la sua vita a tre anni dal sisma. La sua è l’unica famiglia rimasta a Torricchio, località patrimonio Unesco di Pieve Torina, uno dei Comuni ormai fantasma, tra i più colpiti dal sisma. Una prova di forza e resilienza, nella speranza che la ricostruzione cominci presto. “Ma qui da ottobre 2016 non si vede più nessuno – sottolinea Sonia – Anche i miei figli, che prima avevano amici in zona, soffrono la solitudine. So che la nostra situazione non è paragonabile a chi ha avuto danni maggiori o a chi è stato costretto a vivere fuori casa, ma i danni morali si sentono”.

La montagna – l’entroterra di Lazio, Umbria, Abruzzo, ma soprattutto Marche – ora è quasi morta. Prima del terremoto, soprattutto nelle stagioni turistiche, era popolata. Il timore è che chi “ha trovato di meglio” possa decidere di non tornare. “Io ho anche un bambino disabile – dice ancora Sonia al fattoquotidiano.it – E non è semplice farlo vivere nell’isolamento. Ci sentiamo lasciati a noi stessi, abbandonati”. La ferita è ancora aperta.

Tolentino, la città-container dove si rischia di perdere l’identità
A soffrire, come spiega anche Antonella, proprietaria di un bed and breakfast a Tolentino, sono soprattutto gli anziani, attaccati alla propria casa così come al proprio territorio. “Da me sono passate moltissime persone – spiega Antonella che dal sisma 2016 ha aperto le porte del suo affittacamere ai terremotati – ma ricorderò sempre un’anziana, ha avuto lo sguardo vitreo per 10-15 giorni dopo la prima scossa”. Tra le varie soluzioni residenziali quella di Antonella è una delle più complete. La maggior parte delle famiglie che ancora, dopo tre anni, vivono da lei, ha una loro autonomia, con bagni privati e cucina. “Il mercato immobiliare qui è saturo e anche chi vuole andare in affitto spesso non trova posto se non a prezzi esorbitanti”, racconta l’imprenditrice al fattoquotidiano.it, sottolineando che dopo tre anni continuano le contraddizioni. “Oggi ad esempio hanno cominciato a mettere a posto le case meno danneggiate. La conseguenza è che ora a chiedermi l’alloggio sono in troppi: i terremotati che non hanno casa da tre anni, e quelli che ce l’avevano agibile, ma ora è in ristrutturazione”, continua. I terremotati da Antonella non pagano nulla, ma la spesa per lo Stato è ingente: 20 euro al giorno per gli adulti e 12 per i bambini, più il rimborso di tutte le spese che vengono anticipate dalla gestrice. “Da me alla fine hanno una loro dignità – dice ancora Antonella – ma ci sono posti dove l’hanno persa”.

È il caso della città-container di Tolentino, un’area che è rimasta così fin dai primi giorni post terremoto, a pochi chilometri dal centro storico, di fianco alla fabbrica della Poltrona Frau. “Ci vivono ancora almeno 200 persone – spiega al fattoquotidiano.it Dario Matteucci del Comitato 30 ottobre – per lo più sono gli ‘ultimi della catena umana’”. Migranti, famiglie numerose e anziani. Condividono tutto: i bagni, le docce, la mensa. “Hanno perso la loro stessa identità. Le madri non si sentono più tali. Manca qualsiasi tipo di privacy. In pratica hanno creato un ghetto”, racconta Dario, spiegando che ogni modulo accoglie due persone ed è largo 2,5 metri per 5 e che i bambini sono costretti a giocare per i corridoi, senza neanche una scrivania dove poter studiare. Tolentino è l’unico comune del cratere ad aver scelto di non usufruire delle Sae. “Il sindaco (Giuseppe Pezzanesi della Lega, ndr) aveva promesso di darci subito delle abitazioni sostitutive, ma così non è stato”, conclude Matteucci.

Castelluccio di Norcia: viva, ecco le case. Ma senza allacci
C’è anche chi una casetta l’ha già ricevuta, ma non può utilizzarla. È il caso dei lavoratori e dei contadini di Castelluccio di Norcia, la piana che con la sua fioritura ogni anno attira migliaia di turisti. “Qui sono arrivate 8 soluzioni abitative – spiega al fattoquotidiano.it Urbano Testa, presidente del comitato civico Castelluccio – Inaugurate in pompa magna a giugno, sono ancora prive di allacci”. Così, nonostante i ritmi stressanti e le ore nei campi che sembrano infinite, sono tutti costretti a tornare a Norcia per la notte. “Per le istituzioni non sembra un grande problema, ma devono immaginare la stanchezza di guidare di notte, tra le strade di montagna, per tornare a casa ogni sera”. Il poco che è risorto dopo il terremoto, qui, è frutto dell’iniziativa privata, come un container, chiamato “zona Cesarina”, che, racconta Urbano, “è l’unico punto di aggregazione”. Ma le realtà nel cratere sismico si assomigliano un po’ tutte. Ad Arquata del Tronto sono rimasti solo 600 abitanti, prima erano il doppio, e la ricostruzione è inesistente. Stessa situazione ad Accumoli, dove sono tagliati fuori soprattutto i proprietari di seconde case, “volano dell’economia”, secondo il vicesindaco Antonio Valentini.

Federico, la casa sostitutiva che non arriva mai: “Ora il terzo trasloco”
E dove, per scelta del Comune, sono state rifiutate le Sae, l’obiettivo era quello di avere al più presto delle case sostitutive. Sono 200, quelle promesse a Tolentino, in parte nuove in parte invendute, da comprare tramite l’Ente regionale per l’abitazione pubblica e da utilizzare poi come case popolari. La consegna, però, ritarda di mese in mese, spiega Federico Pierino, uno dei beneficiari che oggi è già al suo terzo trasloco. “La cosa più grave è vivere nell’incertezza, non sapere ancora nulla della tua abitazione d’emergenza – dice Federico al fattoquotidiano.it – Secondo le ultime notizie dovrebbero arrivare per ottobre 2020, cioè oltre quattro anni dopo il terremoto”. Quella di Federico, ad esempio, dovrebbe sorgere a 8 chilometri dal centro storico di Tolentino, lontana da qualunque tipo di servizio. Ma il problema è un altro: secondo molti dei beneficiari per quando arriveranno le nuove abitazioni loro avranno già ristrutturato le proprie, senza neanche averci messo piede. “In pratica hanno usato i fondi del terremoto per rimpinguare il patrimonio di case popolari”, denuncia Federico, sottolineando che in molti, una volta ricevute le chiavi, potrebbero addirittura decidere di rimanere in affitto, senza ricevere più il Cas ma anche “senza sconvolgere le loro abitudini”. “Questi tre anni li ho passati sopraffatto dalla burocrazia – conclude Federico – quando ti senti dire che ‘forse non rientri’ nel contributo ti chiedi come potrai riuscire a ricostruire. Perdi tutto, anche la tua umanità”.

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