Nel suo messaggio di cordoglio dopo le stragi di El Paso e Dayton, Donald Trump ha condannato il suprematismo bianco e il razzismo. Per spiegare i sempre più frequenti episodi di violenza omicida di massa, il presidente USA è però ricorso ancora una volta alla questione della malattia mentale, all’influenza dei video games e ai “pericoli di Internet e dei social media”. In altre parole, non c’è stato da parte di Trump alcun accenno a una legge per il controllo delle armi. In conversazioni telefoniche con i senatori Joe Manchin e Pat Toomey, Trump si sarebbe detto pronto a discutere la possibilità di aumentare i background checks, le verifiche sugli acquirenti. Ma la promessa sembra dettata dalla volontà di prender tempo, e far passare l’ondata di indignazione, più che da una reale volontà di azione politica.

Niente da fare anche questa volta, dunque? Nessuna possibilità di arrivare a una legge per il gun control, come successo tante volte anche in passato? Del resto, se nemmeno la strage alla Sandy Hook Elementary School del 2012 era riuscita a indurre all’azione – con 26 morti ammazzati, tra cui 20 bambini – perché questa volta dovrebbe essere diverso? Il dato in effetti è probabilmente questo. Passata l’emozione collettiva, passate le polemiche – pesanti, in queste ore, nei confronti di Trump, accusato di essere il mandante morale della strage di El Paso con la sua retorica sull’“invasione” – niente è probabilmente destinato a cambiare nel breve termine. L’America continuerà a convivere con carneficine più o meno tragiche, in un legame a doppio filo con la cultura delle armi e della glorificazione della violenza che niente sembra in grado di spezzare.

Ci sono stati comunque, in questi mesi, degli elementi di novità che è giusto sottolineare – e che nel lungo periodo potrebbero forse portare a un cambiamento. Anzitutto, la questione del suprematismo bianco. Trump continua a parlare della “malattia mentale” come della ragione più frequente che conduce a prendere un’arma e sparare. Che si tratti di una scuola (nel caso della strage di Parkland, febbraio 2018), di conflitti sul luogo di lavoro (Virginia Beach, maggio 2019), di problemi in famiglia (Sutherland Springs, novembre 2017), la vera molla della strage sarebbe la follia. Di qui l’idea che qualsiasi legge per il controllo delle armi è inutile. Un folle sarebbe infatti in grado di procurarsi comunque una pistola o un fucile e la legge alla fine avrebbe l’effetto di limitare il Secondo Emendamento e il diritto del “buon Americano” a difendere se stesso, la sua famiglia, i suoi beni.

Questa lettura della realtà sta cambiando, proprio sulla spinta dell’emergere del fenomeno del suprematismo bianco. Alcune settimane fa, davanti a una commissione del Congresso, il direttore dell’FBI Christopher A. Wray ha ammesso che “è il terrorismo domestico a destare maggiore preoccupazione”. Tra ottobre 2018 e giugno 2019, l’FBI ha arrestato almeno 100 persone con l’accusa di “domestic terrorism”; nel solo 2018 gli arresti erano stati 150. Gli Stati Uniti si trovano dunque ad affrontare un fenomeno particolarmente preoccupante e diffuso: quello di americani pronti a organizzare attentati e uccidere in nome dell’odio razziale. È stato l’odio razziale a guidare la mano dell’assassino di El Paso, il 21enne Patrick Crusius. Ma è stato odio razziale anche quello dell’omicida della sinagoga di Pittsburgh (ottobre 2018) ed è stato l’odio razziale a uccidere nove afro-americani mentre pregavano nella chiesa metodista di Charleston, nel giugno 2015.

Il suprematismo bianco non si limita più a chat on line come 8chan, la bacheca di messaggistica online utilizzata da account anonimi per condividere messaggi estremisti, l’ultimo quello di Patrick Crusius, il 21enne accusato della strage di El Paso. Non si tratta più di parole o di minacce. Si tratta di fatti, di armi impugnate e di decine di vite spezzate e la cosa comincia a essere chiara anche ai politici repubblicani. “I terroristi bianchi sono una minaccia reale e presente”, ha detto George P. Bush, il figlio di Jeb. “Si tratta di un odioso atto di terrorismo bianco”, ha spiegato il senatore del Texas Ted Cruz.

È dunque possibile che, di fronte alla nuova faccia del terrorismo nazionale e nazionalista americano, qualcosa venga fatto, soprattutto a livello investigativo. Scossa dall’accusa di inefficienza, proprio l’FBI promette ora di “portare tutte le nostre risorse nella ricerca di giustizia per le vittime di questi crimini” (parole del direttore Wray). L’arrivo della campagna presidenziale promette anche di fare del gun control uno dei temi del dibattito. Praticamente tutti i candidati democratici, dopo El Paso e Dayton, hanno chiesto leggi più restrittive. Il senatore del New Jersey Cory Booker, uno dei candidati, ha proposto un programma di concessione del porto d’arma su base nazionale; Beto O’Rourke ha esplicitamente accusato Trump di “razzismo” e Pete Buttugieg ha condannato “il suprematismo bianco… condonato ai livelli più alti del nostro governo”. Si sono mossi anche i leader di Camera e Senato, Nancy Pelosi e Charles Schumer, che chiedono la convocazione d’urganza del Congresso per discutere una nuova legislazione (che dovrebbe essere modellata su quella proposta da Dianne Feinstein nel 2013, che prevedeva il bando alle armi d’assalto e i background checks). Si tratta di una mobilitazione da parte democratica che, con ogni probabilità, durerà almeno sino al novembre 2020 e che avrà l’effetto di tenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica.

Questo non significa, ancora, che si possa arrivare nel giro di qualche mese alla legge che i democratici chiedono. Il leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, esprime il suo “profondo cordoglio” per i morti di El Paso e Dayton, ma è attentissimo affinché nulla possa essere votato dall’aula del Senato. La trasformazione del tema del possesso delle armi in una questione di suprematismo bianco, di razzismo, di ideologia nazista, pone però qualche problema anche per McConnell e per i repubblicani. Sarà cioè sempre più difficile in futuro difendere il diritto assoluto alle armi, se questo diritto si lega alla diffusione del terrorismo nazionale. Probabile che alcuni voti repubblicani, alla Camera e al Senato, vacillino e che sia dunque possibile far passare qualche forma di limitazione al possesso di pistole e fucili. Anche perché, e questa è l’altra novità importante, gli ultimi due anni hanno mostrato diversi segni di crisi nella National Rifle Association, la potentissima lobby pro-armi che nel passato ha bloccato ogni iniziativa legislativa e deciso vincitori e vinti alle elezioni (trenta milioni di dollari della NRA sono finiti nelle casse di Trump nel 2016).

La NRA non pare più così onnipotente. Le sue entrate sono diminuite di 56 milioni di dollari nel 2017, un calo dovuto principalmente al minor numero di iscritti. Alla crisi finanziaria si aggiungono forti dissidi interni (il suo direttore, Oliver North, si è dimesso in polemica con i vertici), mentre le procure di New York City e di Washington D.C. indagano per possibile uso improprio dei fondi dell’organizzazione. Anche la fama di invulnerabilità politica pare scossa. Gruppi come quello di Michael Bloomberg, ex sindaco di New York, hanno fatto pesare il loro appoggio finanziario in diverse contese elettorali importanti. Convinti attivisti anti-armi – per esempio Lucy McBath in uno Stato repubblicano come la Georgia – sono riusciti a prevalere alle elezioni di midterm 2019. Se la NRA mantiene una forza notevole, i tempi sono cambiati. Non è più il 2000, quando la sconfitta di Al Gore alle presidenziali venne attribuita proprio alle prese di posizione anti-armi del candidato democratico. E non è più il 2012, quando persino l’assassinio di 20 bambini venne alla fine digerito dall’opinione pubblica. Le crepe nella NRA aprono nuove possibilità e alimentano la speranza di chi crede in una nuova legge per il gun control. Non subito, forse, Ma nemmeno troppo lontano nel futuro.

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