di Annalisa Rosiello *

Capita spesso di ascoltare persone che hanno il timore di avanzare richieste al datore di lavoro, di fare causa per rivendicare i propri diritti (retributivi o di altra natura), di denunciare condotte illecite o illegittime di capi o di colleghi, di iscriversi al sindacato, di svolgere attività politica o sindacale, di esprimere in maniera libera il proprio pensiero e orientamento ecc. Si tratta del timore di subire ritorsioni, discriminazioni, vittimizzazioni.

Nonostante l’ordinamento giuslavoristico preveda, come vedremo, una tutela molto forte contro queste situazioni (reintegrazione, cessazione delle condotte e rimozione di tutti gli effetti derivati dalle condotte datoriali), resta comunque il timore di esporsi, di compromettere la propria carriera, di subire marginalizzazione o comunque di non riuscire a fare emergere i fatti nel corso del giudizio.

Inoltre, come è facilmente intuibile, questo timore è tanto maggiore quanto più è precario il rapporto di lavoro. Non stiamo parlando solo dei lavoratori a tempo determinato, ma anche di quelli a tempo indeterminato assunti dopo il Jobs Act (ovvero dopo il 7 marzo 2015).

Pur con i correttivi introdotti in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale, il venir meno – in gran parte – della tutela reintegratoria e del relativo, generale, effetto dissuasivo, non agevola l’attuazione e la tutela dei diritti inviolabili della persona tutelati dalla Costituzione, e in particolare della libertà e della dignità del lavoratore (art. 2, 3, 41 comma 2).

Occorre rimarcare, come già accennato sopra, che la legislazione punisce severamente condotte ritorsive e discriminatorie, quali il licenziamento, prevedendo l’azzeramento dei loro effetti per mano del giudice. Ma quali sono gli elementi che il lavoratore deve portare in giudizio per arrivare a fare accertare che effettivamente è stato licenziato per vendetta?

Il licenziamento ritorsivo è definito come “l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo essenzialmente di natura vendicativa”. Numerosi sono i casi portati all’attenzione dei giudici che hanno costantemente affermato la necessità – affinché possa parlarsi di ritorsione – dell’esistenza di un nesso tra comportamento (lecito) del lavoratore e provvedimento vendicativo (appunto, ritorsivo): si richiede in particolare che il motivo ritorsivo debba essere realmente ed effettivamente determinante della volontà del datore di lavoro.

Per quanto concerne, in via generale, l’onere di dimostrare della ritorsione, questo è in capo al lavoratore che afferma che il provvedimento datoriale sia in realtà determinato da una volontà vendicativa. Resta però in capo al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo addotto: infatti, “l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 L. 604/1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso” (Cass. 14197/2018).

In ogni caso, è sempre la stessa giurisprudenza a valorizzare il ruolo delle presunzioni al fine del raggiungimento della prova della ritorsione, che in caso contrario non sarebbe altrimenti dimostrabile: il lavoratore deve pertanto allegare fatti che siano ricostruibili nei termini di “gravità, precisione e concordanza”, propri delle presunzioni valorizzate dall’ art. 2729 cod.civ. Se la ritorsione è legata a un fattore di discriminazione il regime probatorio è simile a quello sopra descritto, seppure un po’ più agevole, come vedremo.

Ad esempio, sono considerati come discriminatori i trattamenti meno favorevoli, gli atti o i provvedimenti subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato di sottomettersi a condotte di molestia morale o sessuale (art. 26 d.lgs. 198/2006). Sono anche considerati discriminatori quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione a un reclamo o a un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne. E infine sono considerati discriminatori gli atti (demansionamento, licenziamento, trasferimento, ecc.) adottati quali conseguenze di una denuncia per discriminazione o per molestia.

Il regime di allegazione e prova è quello stabilito dal diritto antidiscriminatorio (principalmente d.lgs. 215/2003, d.lgs. 216/2003 e d.lgs. 198/2006) e della parziale inversione dell’onere della prova per cui quando vengono forniti dal lavoratore elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare – in termini (gravi) precisi e concordanti – la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori o ritorsivi, a sfondo discriminatorio o di vittimizzazione, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

Il licenziamento ritorsivo, al pari di quello discriminatorio, è nullo e comporta quale conseguenza la reintegrazione, indipendentemente dal momento in cui è sorto il rapporto e dal numero dei dipendenti occupati.

* L’autrice è una delle curatrici di questo blog, qui la sua biografia.

Articolo Precedente

Amazon, dipendenti di tutto il mondo in sciopero nei Prime Day. Chiedono equità salariale e rispetto dei diritti

next
Articolo Successivo

Disoccupazione, ricerca Confindustria: “Al Sud Italia un giovane su due non lavora. E aumentano le aziende fallite”

next