di Annalisa Rosiello*

Con il decreto legge n° 87 del 12 luglio 2018, meglio noto come decreto dignità, si è cominciato a mettere mano a una situazione di pesante squilibrio ingenerata nel corso della passata legislatura, in cui si è evidentemente dato un ampio spazio alla libertà di iniziativa economica (articolo 41, comma 1° Cost.), a scapito dei diritti fondamentali dei lavoratori e della loro tutela (tra i vari, v. art. 41, comma 2° Cost.), in primis la dignità.

In particolare sono state toccate, da questo decreto, due tra le più grevi (per i lavoratori) disposizioni emanate nel corso della passata legislatura: il d.lgs. 81/2015 in materia di contratti a termine e il d.lgs. 21/2015 in materia di contratto a tutele crescenti. Così si legge in premessa nel decreto: “Il presidente della Repubblica, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di attivare con immediatezza misure a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese, introducendo disposizioni per contrastare fenomeni di crescente precarizzazione in ambito lavorativo, mediante interventi sulle tipologie contrattuali e sui processi di delocalizzazione”.

Nella legge delega n° 184/2014 (la “madre” del Jobs act) si prevedeva “l’emanazione di più decreti legislativi volti a promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro “rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti” e si prevedeva l’introduzione del contratto a tutele crescenti “escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione”. La modalità con cui, in sostanza, si è inteso rendere il contratto a tempo indeterminato “più conveniente” sta molto in questo, ovvero nel “limitare” le tutele dei lavoratori a fronte di licenziamenti pure dichiarati illegittimi.

E il prodotto di questa operazione quale è stato? Mentre da un lato c’è stato l’azzeramento di tutele effettive e serie per i lavoratori, cui è correlato l’implicito avallo alle aziende di licenziare (in mancanza dell’effetto dissuasivo di una sanzione equa reintegratoria o quantomeno economica) dall’altro non solo è mancata l’abrogazione o, quantomeno, limitazione dei contratti a termine a-causali precedentemente introdotti (dalla Fornero, nei limiti di un anno), ma anzi si è confermata la possibilità alle aziende di stipularli, prorogarli o rinnovarli per un tempo davvero esagerato, ovvero fino a 36 mesi. Lo sbilanciamento introdotto dal Jobs act – cui oggi faticosamente, si sta tentando di porre rimedio – è questo, smaccato, evidente.

Per dirla anche in altre parole, sempre con riferimento ai contratti termine a-causali: il Jobs act aveva contribuito, nella sostanza, a confondere due istituti assolutamente diversi nelle finalità e nella struttura normativa: la prova e il termine nei contratti di lavoro. Per legge la prima deve durare al massimo sei mesi (o il tempo diverso, di norma molto inferiore, stabilito nei contratti collettivi). Ebbene, togliendo completamente e per un tempo di ben tre anni l’obbligo di causale si era contribuito a generare nel lavoratore la convinzione di essere costantemente in periodo di prova. E questa situazione ha comportato preoccupazione per il futuro e stati d’ansia, senza calcolare il danno (davvero inestimabile) di rinunciare a rivendicare diritti economici, sindacali, segnalare scorrettezze all’azienda ecc. Per queste ragioni la parola dignità è utilizzata senz’altro a proposito nel titolo del recentissimo decreto legge.

Si sta in questi giorni svolgendo in Parlamento l’iter della conversione in legge; sono state anche suggerite modifiche da molti tra noi giuristi a difesa dei lavoratori, alle quali rinviamo. Invece le reazioni scomposte che stanno emergendo nel dibattito politico lasciano alquanto perplessi, in presenza di un provvedimento che lascia sostanzialmente intatto l’impianto dei risarcimenti a fronte del licenziamento illegittimo e che semplicemente sta cercando di ottemperare a quanto segnalato dal Parlamento europeo in una recentissima risoluzione.

Sul quest’ultimo punto: è stato dal d.l. dignità ridotto il numero di mesi in cui si possa assumere, rinnovare o prorogare contratti a tempo determinato, incluso quello somministrato. In sostanza se esistono esigenze strutturali l’azienda non potrà assumere a termine (quanto meno non dopo 12 mesi). Del resto che ragione avrebbe un’azienda di assumere a tempo determinato se ha bisogno di manodopera stabile? Se invece sussistono esigenze temporanee, oggettive legate ad attività estranee a quelle ordinarie, oppure esigenze sostitutive o ancora esigenze connesse a incrementi significativi e non programmabili dell’attività ordinaria (picchi di lavoro) allora si potrà legittimamente assumere a tempo determinato, prorogare o rinnovare (non oltre quattro volte) entro il limite massimo di 24 mesi.

Le causali per la proroga e il rinnovo oltre il 12esimo mese sembrano – opportunamente – più limitative rispetto a quanto previsto dall’abrogato testo del d.lgs. 368/2001 (che prevedeva: “È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”) dato che nel decreto compaiono parole e locuzioni più incisive rispetto a quelle – laconiche – contenute nel testo del 368.

*L’autrice dell’articolo è una delle curatrici di questo blog

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