Tiene banco la vicenda di Marco Carta e del furto delle magliette ancora da chiarire. Da una ricerca molto “accademica” e blasonata si scopre però che i taccheggiatori d’Italia in azione sono un nutrito esercito, tanto che solo nel settore delle vendite al dettaglio il danno economico stimato per il nostro paese si aggira attorno ai 3,3 miliardi di euro l’anno quanto a perdite nette, più 1,5 di spese sostenute per la sicurezza. Un dato che, spalmato su tutti gli italiani, si porta via circa 80 euro pro capite. La singolare statistica emerge da un imponente studio realizzato su 11 Paesi europei appena pubblicato da “Crime&tech”, spinoff del centro studi Transcrime dell’Università Cattolica di Milano diretto da Ernesto Savona. La ricerca (scaricabile a questo link) si chiama Retail security in Europe. Going beyond Shrinkage” ed è stata condotta in collaborazione con Checkpoint Systems, divisione del leader mondiale nelle soluzioni per etichette e packaging CCL industries (Usa).

Uno dei dati più interessanti riguarda il fenomeno generale perché, stando alla pubblicazione, proprio il taccheggio è la causa più frequente delle perdite, molto di più rispetto ai furti con scasso, le rapine e le appropriazioni di fornitori o dipendenti. Il secondo dato interessante, che la dice lunga su come gira l’economia, è che nella classifica degli ammanchi svetta la merceologia alimentare, dopo l’abbigliamento con al secondo posto proprio la maglieria e t-shirt del caso Carta che ha portato il taccheggio in cima alle cronache nazionali. I primi cinque sono bevande alcoliche, formaggi, carne, dolci e pesce in scatola. Nel settore dell’abbigliamento sono accessori, maglieria, pantaloni e camicette i prodotti più rubati, mentre telefoni cellulari e accessori sono in cima alla lista rispettivamente nel settore dell’elettronica e tra gli attrezzi di alto valore nei negozi di fai-da-te.

Metro assunto per l’indagine sono le differenze inventariali dei magazzini, in pratica quel che si ritrova a monte della vendita quando si traccia una linea e si scopre che buona parte della merceologia acquistata per essere venduta è sparita nel nulla senza un corrispettivo nella vendita da scaffale. Ma non basta. Per definire qualitativamente il dato gli esperti hanno effettuato una “survey” tra i venditori al dettaglio e grandi magazzini di nove paesi, per un equivalente di 23mila punti vendita coperti proprio per capire quale fattore sia intervenuto nella “dispersione” della merce che di fatto costa il 2,1% del fatturato. Lo sforzo cui tende la ricerca è di epurare la minaccia multifattoriale delle differenze inventariali che ha origini diverse, dal taccheggio al furto da parte  dei dipendenti, passando per la criminalità organizzata (ORC) e gli errori amministrativi o di processo; senza dimenticare le perdite generate dagli scarti o dalle merci scadute.

Fatto questo, l’Italia dei taccheggiatori sembra godere di ottima salute. Le aziende del settore retail hanno registrato, in media, un tasso di differenze inventariali dell’1,2% del loro fatturato, comprese le perdite note e sconosciute (media degli anni 2015-2016-2017, con una media dell’1,2% nel 2017) ma il valore varia a seconda del settore. Come in altri Paesi, il settore degli alimentari riscontra il tasso di perdita più elevato: il 2,4% nel 2017, con un aumento dello 0,1% rispetto al 2015. L’abbigliamento e gli altri settori registrano valori simili per le differenze inventariali (0,8% nel 2017) e mostrano una tendenza costante nei tre anni.

I valori delle differenze inventariali più elevati per il 2017 si registrano nei punti vendita situati nelle province di Genova, Milano, Imperia, Bologna e Napoli. Anche secondo i retailer, il taccheggio è la causa più frequente delle differenze inventariali in Italia, seguito da furto con scasso e rapina. Oltre al “grab and run” i metodi più utilizzati sono la rottura di etichette/placche antitaccheggio e l’uso di borse schermate. La maggior parte dei rispondenti italiani sottolinea il ruolo svolto dalle micro-bande, composte da 3-4 persone, spesso specializzate e ben attrezzate (con distaccatori di etichette antitaccheggio, jammer, magazzini dove conservare la merce rubata) e intente a colpire più bersagli. I retailer italiani spendono in media lo 0,5% del loro fatturato in misure di sicurezza. Le contromisure più frequentemente adottate sono i sistemi di videosorveglianza, seguiti dall’EAS e dagli allarmi.

Dove abitano i ladri? La classifica per Paesi è ordinata secondo le perdite e non in rapporto alla popolazione e alla diffusione di attività commerciali. Dice che i più colpiti sono il Regno Unito con 8,8 miliardi di euro, seguito dalla Francia con 7,2 e quindi Germania con 3,7. L’Italia, come detto, ha perdite per 3,3 miliardi.

Giocando coi numeri  – cosa che la ricerca ovviamente non fa – si possono tentare raffronti e sfatare luoghi comuni. Gran Bretagna e Italia ad esempio hanno grosso modo la stessa popolazione: 66 milioni contro 60, ma il rapporto tra furti e residenti è di 1 a 133 contro 55. Quasi un terzo. Questa evidenza non tiene conto però di un altro dato cruciale che “tempera” ogni confronto e falsa i tentativi di ricavare graduatorie: quello relativo alla percezione del fenomeno e ai costi per contrastarlo sostenuti dagli esercenti, giacché gli investimenti in misure di sicurezza variano molto da Paese a Paese. In Italia a fronte di una perdita di 3,3 miliardi se ne investono 1,5 per prevenire i furti. Mentre nel Regno Unito, per stare al raffronto, il rapporto non è di 1 a 2 ma di 2,7 a 1, perché i britannici perdono 8,8 miliardi per le “differenze inventariali” a fronte di 3,5 spesi per impedirle. In ogni caso in Italia – chi lo avrebbe mai detto – il rapporto tra guardie e ladri risulta più “equilibrato” dei nostri cugini in fuga dall’Europa.

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