Sono bambini costretti a crescere in fretta, hanno subito traumi e affrontato un viaggio in cui molto spesso hanno rischiato la vita. Sono “adolescenti adultizzati”, minorenni stranieri che arrivano in Italia non accompagnati, o per scelta o perché hanno perso i genitori durante il tragitto. Sono almeno 8342, nel nostro Paese, secondo i dati di marzo 2019. Circa l’85 per cento ha tra i 16 e i 17 anni. Dal 2017 in Italia esiste la legge Zampa, che per la prima volta in Europa rende obbligatoria l’accoglienza dei minori non accompagnati e predispone due forme di tutela: l’affido in famiglia e il tutore volontario. Ad oggi però, solo il 3% dei minori ha potuto beneficiare dell’affido familiare. E nonostante cinquemila persone abbiano presentato la candidatura per diventare tutori volontari, le cose procedono molto a rilento anche su quel fronte. Tra le cause principali dei problemi, c’è il fatto che i governi, quello Gentiloni prima e quello gialloverde ora, non abbiano mai emanato i decreti attuativi della legge. Sono passati più di due anni dall’approvazione del provvedimento e ancora l’iter non è concluso. E proprio il tempo che passa è una variante critica, perché su molti dei minori incombe l’ombra del decreto Sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che prevede che a 18 anni perdano la protezione umanitaria.

I numeri e la questione degli “irreperibili”
Dei minori stranieri non accompagnati attualmente registrati, una parte ha un’età particolarmente vulnerabile. Il 5,3% di loro hanno 14 anni o meno, e lo 0,7% hanno meno di 6 anni. Il 93 per cento sono maschi, il 7% sono femmine. Molti provengono da regioni remote dell’Africa e nel viaggio hanno subito violenze, torture, schiavitù. Le nazioni di provenienza più frequenti sono Albania (1.689), Egitto (755), Gambia (573), Costa d’Avorio (554), ma anche Nigeria (438), Eritrea (394), Mali (342) o Afghanistan (189). E poi ci sono i 4.324 minori “irreperibili”, cioè minori stranieri non accompagnati per i quali le autorità hanno segnalato un allontanamento. Il rischio è che finiscano nelle maglie della criminalità, dello spaccio e, nel caso delle femmine, della prostituzione. Molti, segnala il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, vengono spesso sfruttati nei cantieri e nei campi. I dati sono stati forniti nel corso di una conferenza organizzata a Milano nell’ambito del progetto Forum (Foster care for unaccompanied migrant children) dal titolo “Minori non accompagnati, la sfida dell’accoglienza”. L’evento è stato promosso dalla Fondazione Albero della Vita Onlus.

Perché l’affido in famiglia non decolla
La quasi totalità di questi ragazzi è accolta all’interno di comunità di accoglienza per minori. Strutture che, per quanto gestite da personale qualificato, non possono sostituirsi al supporto e l’affetto di una famiglia. L’affido spesso crea un legame che continua anche dopo il raggiungimento della maggiore età. Ma il sistema non decolla, per tre motivi. Innanzitutto, mancano le famiglie affidatarie. Secondo Ivano Abbruzzi, presidente della fondazione Albero della vita, che si occupa della questione da 15 anni, la carenza di nuclei nasce dal fatto che non c’è un sistema strutturato: “Non è per mancanza di sensibilità, ma perché non si cercano abbastanza famiglie disponibili. I Comuni non fanno campagne di sensibilizzazione”. E qui, il parziale smantellamento degli Sprar, il sistema di accoglienza diffusa sul territorio ridimensionato dal decreto Sicurezza, non aiuta. Secondo: non c’è una legislazione uniforme, ogni Regione ha regole differenti. “C’è confusione – spiega Abbruzzi – mancano risorse umane. Le famiglie affidatarie hanno bisogno di sentirsi supportate dai servizi sociali, e invece spesso non lo sono”. Infine, la concentrazione dei minori in poche Regioni finisce per intasare le organizzazione regionali che si occupano degli affidi. L’affido, dati alla mano, porterebbe anche un risparmio di risorse pubbliche. Il contributo dato alle famiglie affidatarie è di circa 500 euro più una diaria di 15 euro, anche se in alcune regioni è molto meno. Al contrario, afferma Abbruzzi, “un minore messo in comunità costa, in Lombardia, almeno 100 euro al giorno. In pratica, i Comuni pagano molto di più di quanto potrebbero fare se incentivassero il sistema degli affidi”.

I tutori legali ci sono, ma non vengono assegnati
Prima delle legge Zampa, i minori stranieri non accompagnati potevano avere come tutore legale solo una figura istituzionale, come un sindaco, un assessore o un ente locale. Così che spesso, una sola persona finiva per essere responsabile di centinaia di minori ed era costretto a delegare il lavoro ad assistenti sociali già oberati di lavoro. Con l’introduzione del sistema dei tutori legali volontari, tutti possono svolgere questa funzione, a certe condizioni e dopo un corso di formazione. Così, ogni minore può essere seguito personalmente. Insomma, un modello di cittadinanza attiva e di genitorialità sociale. Ma anche questo caso il sistema fatica a procedere. Ad oggi, “ci sono più di 1.700 tutori già formati e pronti”, spiega Stefano Scarpelli, dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, “ma visto che non ci sono decreti attuativi mancano assicurazioni e supporto per i tutori. Come ad esempio i permessi di lavoro, di cui hanno diritto coloro che fanno volontariato”. Dei 1.700 tutori già formati non c’è un numero preciso su quanti siano stati nominati o assegnati ai minori. I primi dati arriveranno a settembre 2019. Ma secondo gli addetti ai lavori le criticità sono legate anche alla lentezza dei Tribunali minorili. Sandra Zampa, la deputata del Partito democratico che ha promosso la legge che porta il suo nome, afferma che “quasi tutti i minori potrebbero avere un tutore, ma i magistrati ci mettono troppo a chiudere le pratiche”. Eppure, aggiunge, “sono stati i Tribunali minorili a spingere per avere esclusività su queste competenze”. Una decisione, comunque, che all’epoca era stata promossa dal Garante nazionale dell’infanzia.

Le criticità nelle regioni sovraccaricate
A impattare sia sul sistema degli affidi che su quello dei tutori è anche il problema dell’iniqua distribuzione dei minori sul territorio nazionale. In Sicilia, dove avvengono la maggior parte degli arrivi, ci sono 2575 minori stranieri non accompagnati, più del 30% del totale. Seguono la Lombardia con 846 e il Lazio con 704. In queste regioni l’assistenza sociale e le associazioni che si occupano di minori non accompagnati sono spesso sovraccaricate di lavoro. Anche se gli esempi virtuosi non mancano, come racconta Laura Purpura, coordinatrice dell’Unità organizzativa affidamento familiare di Palermo: “La nostra regione è quella più in difficoltà. Ma siamo riusciti ad avviare campagne di promozione facendo incontri nelle scuole, nelle caserme, nelle parrocchie. Spesso aiutati dalle associazioni di volontariato del territorio”. Nel suo piccolo, l’Unità di Palermo è riuscita ad affidare, nel 2018, dieci ragazzi e una ragazza.

La resilienza che nasce dalla famiglia
“Barbara mi ha sempre seguito, in tutto e per tutto. Nel calcio, nella musica. Grazie a lei, ho due famiglie”. Mohammed parla un po’, poi si emoziona e non dice altro. In Italia, ha trovato una mamma e un fratello. Il suo viaggio dalla Nigeria è stato lungo, il suo arrivo altrettanto difficile. I minori stranieri non accompagnati sono considerati dalla letteratura scientifica soggetti ad alto rischio psicopatologico e psicosociale. Alcuni soffrono di disturbo post-traumatico da stress. Il punto è che “sono nel mezzo di una doppia transizione”, spiega Laura Migliorini, professoressa associata di psicologia sociale all’Università di Genova. “Da una parte quella migratoria, che li sradica dalla realtà che conoscono e mette a rischio i loro significati di vita. Dall’altra sono in una fase adolescenziale complicata da cambiamenti culturali e di contesto, e dalle brutte esperienze che spesso hanno vissuto”. Negli studi su questi ragazzi e ragazze, ritorna spesso un termine: “resilienza”. In psicologia è definita come la capacità di far fronte a eventi traumatici, la forza di riorganizzare la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi senza alienare la propria identità. Una capacità che potrebbe essere supportata dalle istituzioni, tenendo a mente un fatto semplice. Ovvero che questi “minori stranieri non accompagnati”, prima di essere stranieri, sono ragazzi.

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