‘L’amicizia è fatta da un 10 per cento di empatia e un 90 per cento di invidia’, aveva letto in una rivista di una sala d’attesa. A Quinoa invidiava la determinazione quando si trattava di mantenere una dieta sana. La forma che qualsiasi tipo di jeans dava al suo sedere. La pantera nera tatuata che sfoggiava sull’avambraccio. E anche il coraggio al momento di abortire, perfino quando la famiglia l’aveva minacciata di non rivolgerle più la parola. A Loreto invidiava le tette morbide e il gatto Pelosone. La capacità di organizzare feste a casa degli altri, la naturale conversione al lesbismo quando aveva compiuto 35 anni e perfino l’altrettanto naturale accettazione del suo strabismo: ‘Gli uomini sono un mistero. Alcuni volevano che chiudessi l’occhio difettoso mentre gli facevo un pompino, ma altri mi chiedevano di aprire solo quello’.

Una torbida relazione sentimentale avuta con il suo professore di lettere del liceo riportata alla mente di Helena, affermata critica enogastronomica, dall’amica Rocío, che le comunica la morte di colui che l’ha iniziata sessualmente. Helena torna ad Alcalá de Henares per partecipare al funerale e si ritrova coinvolta nel proprio passato, in un lungo, commovente, rabbioso viaggio a ritroso nel tempo. Un viaggio supportato da un ermetico e puntuale diario che la fa tuffare nei rimpianti.

Questa la trama, in sintesi, de Il funerale di Lolita, di Luna Miguel (traduzione di Eleonora Mogavero; Solferino), che dopo le raccolte poetiche tradotte in una dozzina di paesi e un saggio sulla masturbazione femminile approda alla forma del romanzo. Una storia veloce, con un ritmo e un linguaggio a tratti feroce, che mette in risalto i desideri oscuri, i traumi e le fragilità di una donna di 30 anni. Memoria e presente si miscelano creando uno stile originale e affascinante.

Urla la tempesta. Infuria per ore. Non demorde. Non cede. Non mostra pietà. Crollano gli alberi che erano lì da prima della sua nascita, spezzandosi al suolo con una forza che la fa tremare (…) la sabbia le penetra nella pelle. Ha gli occhi rossi per gli schizzi di acqua salata, le labbra secche e screpolate. I palmi delle mani e il petto le sanguinano per lo sfregamento della corteccia dell’albero (…) si chiede che ne sarà di suo figlio. Che vita avrà da adulto. Vorrebbe che fosse più grande, che avesse almeno l’età per ricordarla, se proprio le tocca morire su quell’albero per la furia del cielo.

Tempesta, di Arif Anwar (traduzione di Eleonora Gallitelli; SEM), intreccia cinque vicende che raccontano la storia del Bangladesh e della sua gente, passando dalle conversioni all’Islam per amore, agli strascichi dell’occupazione giapponese, dagli esuli contemporanei negli Stati Uniti d’America alle vicende di terribile quotidianità del 1970, quando il Bangladesh, che non esisteva ancora (apparteneva al Pakistan), venne travolto dal ciclone Bhola che in dieci giorni causò danni di livelli apocalittici: mezzo milione di persone persero la vita. Da lì prese il via la guerra contro il Pakistan, che portò all’esodo di dieci milioni di profughi in India; un milione di persone erano morte di malattie o di fame e c’erano innumerevoli bambini orfani.

Arif Anwar, con un linguaggio semplice e affascinante, tesse un affresco indelebile. Una saga ai margini della Storia, dove quello che emerge è l’estremo sacrificio che ognuno di noi (o almeno i personaggi su carta) facciamo per quelli che amiamo, nonostante le privazioni, le difficiltà e l’orrore che la vita ci offre gratuitamente, impacabile come una tempesta che sarà ricordata in Bangladesh e nel mondo come la più catastrofica del XX secolo. Nel mentre, nella narrazione, in una combinazione perfetta, le storie si incastrano in altre storie, in un riuscito mosaico di parole:

A quindici secondi dallo sgancio vede la bambina, una figurina bianca. Afferra il binocolo per guardare. Avrà massimo sei o sette anni ed è paralizzata dalla paura. In una mano regge un secchio, immagina per prendere l’acqua. In un attimo di follia ha l’impressione di incrociare il suo sguardo. Dieci secondi. È l’unico essere umano visibile. Cinque secondi. La piccola è proprio al centro della zona di lancio, l’unica destinataria della propaganda giapponese in tutto il Bengala. Aziona la leva per liberare il carico. Migliaia di fogli volteggiano nella scia dell’elica in una nuvola rossa, gialla e nera che lo fa pensare alle farfalle monarca.

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