di Hagar Lane

Nelle comunità dei lupi i membri anziani e malati camminano alla testa al branco, o in mezzo agli altri lupi, ma mai in coda. In questo modo i lupi proteggono i membri più deboli da eventuali attacchi nemici, e l’andatura del gruppo si regola sul passo dei cosiddetti “ultimi”, perché non restino indietro e soli. Noi umani ci definiamo “animali sociali”, nel senso che per vivere necessitiamo delle relazioni con altri esseri umani come dell’aria per respirare. Il valore di comunità dovremmo cioè avercelo scritto nel Dna. Eppure, è solo nel 2019 che variamo una norma sul reddito di cittadinanza, come avessimo scoperto solo oggi cosa significa appartenere a uno stesso popolo.

I lupi riderebbero di noi, perché loro lo sanno da sempre che i deboli vanno protetti e aiutati, e non abbandonati a loro stessi, e la legge di Darwin vale solo in caso di lotta per la sopravvivenza fra due rivali, non anche all’interno della stessa comunità. E nonostante John Nash abbia dimostrato con la “teoria dei giochi” che per massimizzare i risultati per tutti, in una situazione di interazione con altri soggetti (due o più), non si deve competere ma cooperare, noi stiamo ancora a discutere se il reddito di cittadinanza andava fatto o no. Certo che andava fatto, dico io! Alla fine ce l’abbiamo fatta, ma non nascondo la mia amarezza per com’è stato concepito. Qui di seguito spiego perché.

L’Italia è un Paese strutturato in caste e con un tasso di corruzione che ci vede al 53esimo posto nella classifica mondiale, dietro Paesi come la Namibia, il Botswana e il Rwanda. Questo significa che da noi i deboli non sono solo i vecchi e i malati, come nelle società sane, ma anche i giovani, i plurilaureati, i ricercatori di genio e professionisti di grande esperienza, come nelle società malate, dove la meritocrazia non esiste. Corruzione e meritocrazia sono fattori inversamente proporzionali fra loro: pertanto se l’Italia è uno dei Paesi con maggior corruzione al mondo, va da sé che è anche uno dei Paesi dove meno esiste la meritocrazia.

Inoltre, quando un’azienda chiude (spesso per bancarotta fraudolenta o per avidità, delocalizzando gli impianti produttivi nell’Europa dell’Est) non lascia a casa solo i fattorini e i manovali, ma tutti. Fra i disoccupati, cioè, ci sono anche i migliori, che senza un santo in paradiso difficilmente troveranno un altro lavoro, una volta perso quello che avevano. Anzi, faranno più fatica di un manovale a trovare lavoro, perché le aziende chiedono sempre più manovalanza o manodopera specializzata, ma non professionali, funzionari e manager, perché non si investe quasi più in ricerca e sviluppo, tecnologia e innovazione di processo e di prodotto.

Così, quando sento dire che nel reddito di cittadinanza è contemplato un piano di formazione per i disoccupati e dei navigator che li aiutino a inviare i curriculum, mi cadono le braccia a terra.
La mia amarezza nasce dal fatto che anche i Cinquestelle hanno ragionato come non sapessero niente dell’Italia, come venissero pure loro da Marte. Anche loro, sotto sotto, stanno dicendo che i disoccupati in Italia sono le persone meno preparate e con minor esperienza lavorativa, altrimenti non parlerebbero di formazione per “riqualificarsi”. Non penserebbero per i disoccupati ai navigator – che spesso non sono altro che disoccupati come loro, fino al giorno prima di diventare navigator – che li aiutino a scrivere un curriculum.

Io avrei fatto il reddito di cittadinanza facendo lavorare quelle persone per la comunità, per sentirsi dentro la comunità, a pieno titolo. Così avrei riaperto le decine di musei che stanno chiusi da anni per mancanza di custodi, avrei fatto pulire i parchi e le spiagge, fornito assistenza domiciliare agli anziani, etc. Abbiamo forse perso un’occasione per creare col reddito di cittadinanza un nuovo modello di comunità, e zittire la bocca a quanti, a ragione purtroppo, dubitano che un sussidio fatto così abbia senso.

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