Un piccolo apologo tratto dalla storia patria della mia città: Genova.

Nel 1903 i carbuné (i portuali scaricatori del carbone) avevano bloccato l’intera città come reazione (indignata?) alla chiusura prefettizia della loro Camera del Lavoro.

Una situazione che stava diventando questione nazionale, visto che lo sciopero del primo scalo italiano produceva danni all’economia dell’intero Paese.

Per questo il direttore del Corriere della Sera spedì sul posto un collaboratore della testata – di nome Luigi Einaudi – affinché spiegasse ai lettori cosa stesse davvero succedendo. Così il giovane economista interrogò le parti e fece le sue analisi, per poi concludere con un giudizio inaspettato: nella controversa vicenda i veri liberali erano proprio quei lavoratori che il pensiero ufficiale stigmatizzava come irresponsabili, in lotta spalla a spalla per i diritti collettivi. A posteriori si potrebbe dire, per la democrazia. Einaudi populista?

Allo stesso modo mi domando nel saggio che pubblico in questi giorni (Il conflitto populista) se ancora una volta i benpensanti non stiano ripetendo la stessa operazione nei confronti del cosiddetto “populismo”; che a mio giudizio è soltanto la teorizzazione di quanto avevano già percepito gli indignati, popolando nel 2011 i quartieri di 950 città di 80 Paesi per protestare contro una scoperta sconvolgente, emersa dall’esplosione delle bolle finanziarie speculative di quegli anni: la mutazione genetica dei vertici politici ed economici della società, trasformati in caste autoreferenziali e tra loro intimamente colluse; per praticare quella che taluno ha definito “accumulazione mediante esproprio”, a danno di ceti medi impoveriti dalle politiche di precarizzazione e di austerity.

Sicché, se il termine “populismo” può sembrare usurato dalle troppe manipolazioni, parlerò di AltraPolitica: la domanda di un ritorno alla democrazia effettiva che – ad oggi – non ha trovato un soggetto politico che la interpreti senza intenti strumentali.

Eppure di questi tempi movimenti progressisti/alternativi continuano a entrare in scena (No Tav, No Tap, le femministe e i gay mobilitati a Verona contro i biechi oscurantisti del sedicente “Popolo della famiglia”, ecc.). Il problema è che, non riuscendo a trovare sbocchi istituzionali, sono continuamente a rischio impazzimento. Come le istanze libertarie del Sessantotto affogarono nel sangue del partito armato. Come forse sta succedendo in Francia con i gilets jaunes.

Il problema della declinazione organizzativa dell’AltraPolitica si sta evidenziando in tutta la sua drammaticità ora che ci avviamo alle elezioni europee di maggio, in cui sono in campo soltanto due soggetti: i conservatori a difesa dell’Europa di Maastricht e i reazionari dell’utopia regressiva sovranista/suprematista. Latitano i propugnatori dell’idea democratica di Stati Uniti d’Europa sulla scia del venerando manifesto di Ventotene.

Con i Zingaretti, i Calenda, il trio Bonino-Tabacci-Della Vedova e perfino i sindaci di Pizzarotti a difendere fuori tempo massimo l’imbroglio smascherato dell’Unione a centralità bancaria; i sovranisti guidati dalla Lega a intercettare una sorta di Fascismo 2.0, da mettere al servizio dell’ennesima occupazione del potere.

Problema che interfaccia con quello della costruzione di un blocco sociale a promozione della rinascita democratica, che – nelle analisi del pensiero populista correttamente inteso – prevede la creazione di un “popolo” assemblando il mondo del lavoro, le sensibilità di genere, i diritti degli minoranze etniche e – ovviamente – la questione ambientale. Mentre assistiamo a un ritorno dei Verdi sulla scena europea che, diventando punto di riferimento (e accantonando passati cedimenti al mainstream), potrebbe risolvere il problema che attanaglia molti di noi: nello stallo annunciato tra conservatori e reazionari, a chi dare il voto per una svolta di AltraEuropa e per la democrazia del popolo. Una scelta populista?

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