La signora May crede tenacemente nel suo deal, quasi quanto nel suo mitico cappotto azzurro griffato Herno, che l’ha tenuta al caldo per tutto l’inverno nei suoi viaggi tra Londra e Bruxelles (per la cronaca, nella boutique di Henley dove spesso fa acquisti, è disponibile ancora una taglia 10, in grigio, scontata del 50%, a 417 sterline invece di 835). La signora May, invece, non fa sconti di fine stagione e, nonostante la terza bocciatura del parlamento britannico, sembrerebbe propensa a far votare per la quarta volta il suo accordo di recesso se oggi i “voti indicativi” della Camera dei Comuni non riuscissero a convergere su un’opzione diversa dalla sua.

Attualmente la data in cui il Regno Unito smetterà di essere uno Stato membro dell’Ue è fissata al 12 aprile e l’uscita senza accordo rappresenta una possibilità sempre più concreta. Il presidente Donald Tusk ha convocato urgentemente un Consiglio europeo per il 10 aprile e starà ai britannici, se lo vorranno, indicare al Consiglio nuove opzioni da prendere in considerazione. In mancanza di accordo le opzioni sarebbero due:

1. l’uscita “disordinata”, il 12 aprile;

2. una proroga che avrebbe senso solo in alcune circostanze, per esempio la necessità di tempo per preparare un’uscita senza accordo oppure per completare la ratifica di un accordo firmato ma non perfezionato o per organizzare elezioni generali o un nuovo referendum. In tutti i casi si tratterebbe di una proroga lunga e, per fruirne, il Regno Unito dovrebbe partecipare alle prossime elezioni europee eleggendo i propri rappresentanti perché, a quella data, sarebbe ancora uno Stato membro dell’Ue con tutti i diritti e gli obblighi relativi.

Secondo una nota diplomatica emersa da una riunione dei 27 ambasciatori dei Paesi Ue avvenuta il 28 marzo – citata dai giornalisti di BuzzFeed News che hanno avuto la possibilità di leggerla – l’Ue, in caso di no-deal, porrebbe tre condizioni preliminari prima di discutere nuovi accordi commerciali con il Regno Unito:

1. la garanzia che la Gran Bretagna rispetti i propri impegni finanziari (il cosiddetto Brexit Bill, già parte dell’accordo bocciato);

2. la sicurezza che vengano garantiti i diritti dei cittadini dell’Ue nel Regno Unito e dei britannici che lavorano e risiedono in altri Paesi dell’Ue;

3. l’impegno a trovare una soluzione che mantenga aperta la frontiera nell’Irlanda del Nord seguendo le linee definite nell’accordo di recesso e, in particolare, il backstop, la “polizza assicurativa”che garantisce che la frontiera in Irlanda rimanga in ogni caso aperta.

Si tratterebbe quindi di sottoscrivere termini molto simili a quelli contenuti nel Withdrawal Agreement, mentre la Commissione europea avrebbe anche messo in guardia gli ambasciatori degli Stati membri dall’avviare negoziati bilaterali settoriali con il Regno Unito.

Sia il no-deal che una lunga proroga avrebbero costi politici ed economici per l’Ue: una lunga proroga vedrebbe il Regno Unito continuare a partecipare ai processi decisionali dell’Ue, comprese le discussioni relative al bilancio, mentre un no-deal probabilmente vedrebbe la necessità di assistere finanziariamente gli Stati membri e i settori maggiormente colpiti da una Brexit senza accordo.

Oltre al no-deal e alla proroga rimane la terza opzione: la revoca della notifica secondo l’articolo 50. Ne ha scritto recentemente il costituzionalista Mark Elliott. Secondo il professor Elliott, se davvero, come hanno dichiarato, tanti parlamentari non vogliono giungere al punto di divorziare senza accordi potrebbero votare una legge molto semplice che eliminerebbe l’opzione no-deal.

Basterebbero pochi articoli:

1. La sottosezione (2) si applica se un accordo di recesso non è stato ratificato dal Regno Unito 24 ore prima del giorno di uscita.

2. Il primo ministro deve in tal caso, prima del giorno di uscita, notificare al Consiglio europeo che la notifica della sua intenzione di ritirarsi dall’Unione europea – data dal Regno Unito ai sensi dell’articolo 50, paragrafo 2 del trattato sull’Unione europea – è revocata.

Sarebbe utile a dimostrare la genuinità delle loro intenzioni al di là degli emendamenti alle mozioni e dei “voti indicativi”, che non servono a fermare l’orologio dell’articolo 50 che continua a battere le ore indipendentemente e inesorabilmente.

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