Da 40 anni l’associazione degli Amici della Scala, presieduta da Anna Crespi, promuove un ricco programma di conferenze, convegni, presentazioni di opere e di libri. Dai primi del Duemila, a questa attività si è aggiunta la sistematica valorizzazione del patrimonio scenografico documentato negli archivi del teatro milanese. Anno per anno gli Amici pubblicano quattro piccole prelibate monografie sugli scenografi che hanno lavorato per la Scala: e sono arrivati ora al 60esimo titolo. In più, esce una monografia di grande formato, riccamente illustrata, su registi del calibro di Luca Ronconi e Franco Zeffirelli, ma anche su scenografi, illustratori, figurinisti come Giuseppe Palanti o Lila De Nobili. Animatrice di entrambe le collane è un’esperta conclamata della scenografia italiana, Vittoria Crespi Morbio: a lei si devono, per dire, lavori fondamentali su artisti come Alessandro Sanquirico, che alla Scala mise in scena Rossini, Bellini e Donizetti (e Stendhal stravedeva per lui).

Quest’anno la monografia maggiore è dedicata a Giorgio Strehler e i suoi scenografi, ossia a un personaggio chiave del teatro italiano del secondo Novecento (Parma, Grafiche Step, 2018). Il volume di Crespi Morbio dà una panoramica completa dell’attività di Strehler (1921-1997), sul doppio versante del teatro di parola e del melodramma, vista in rapporto a scenografi come Gianni Ratto, Luciano Damiani, Ezio Frigerio.

Con Ratto, Strehler diede vita a un teatro “di movimento, snello, giovane”, inventò spazi in cui gli attori avessero “libertà e gioia di correre, spostarsi, incontrarsi, equivocare, entrare uscire avanzare”. Dopo una parentesi col brillante Giulio Coltellacci, distante però dalla visione rigorosa del regista, prese avvio la collaborazione fruttuosissima con Damiani: esiti fulgidi La tempesta di Shakespeare (Piccolo Teatro, 1978), Il ratto dal serraglio di Mozart (Festival di Salisburgo, 1965), il Macbeth verdiano (Scala, 1975), dove la scena diventò metafora del “nascondimento”, di qualcosa che “la vista non potrebbe sopportare”. Con Frigerio il regista poté esprimere appieno la propria visione cupa, screziata dal lutto e dalla perdita, che trovò grandiosa manifestazione nel Simon Boccanegra di Verdi (Scala, 1971): la vela ammainata simboleggiava il destino di solitudine del protagonista. Oltre a una cronologia analitica il lettore trova nel volume una messe stupefacente di foto, bozzetti di scena, figurini. Bellissima l’immagine dei lunghi pilastri gotici di Frigerio per il Lohengrin di Wagner, affascinanti i costumi di Felice Casorati per Elettra di Sofocle, impressionanti le foto di scena di Piero Zuffi per Giulio Cesare di Shakespeare.

Anche le quattro piccole monografie su scenografie scaligere sono frutto del lavoro indefesso di Crespi Morbio. Le prime due si rifanno all’epoca dei “pittori di cavalletto” prestati al teatro d’opera, tra le due guerre. Esempio illustre è Giorgio De Chirico (1888-1978), che per la Scala lavorò sull’arco di mezzo secolo, dal 1924 al 1975. Memorabile l’Apollo musagète (1956) di Stravinskij, tutto movimento e cangiantismo, dove “le luci trascolorano senza pace, le aurore subito scemano nelle atmosfere vespertine”. Del tutto diversa la Leggenda di Giuseppe (1951) di Richard Strauss, sensuale e tormentata: il letto disfatto, le vesti scomposte su un corpo già maturo “parlano di un desiderio irrisolto, di un’impotente tristezza”.

Anche Cipriano Efisio Oppo (1891-1962), versatile pittore e critico d’arte, fu negli anni 20 e 30 un alfiere della modernità. Nelle sue scene scaligere immense strutture architettoniche convivono con la piacevolezza illustrativa dei paesaggi. Nella Sacra rappresentazione di Abram e d’Isaac di Pizzetti (1949) espresse per un’ultima volta una pittura fatta di “equilibrio, armonia, serenità”.

Venendo più vicini a noi, Yannis Kokkos (1944) ha firmato un leggendario Pelléas et Mélisande di Debussy (1986), regia di Antoine Vitez, e un Crepuscolo degli dei di Wagner (1998) di cui fu anche regista: mediante un sistema di proiezioni governato dal computer puntò a ricreare “una natura più atmosferica che realistica”, “il passaggio da un mondo incantato a quello dove dominano crudeltà, potere, avidità”.

La quarta monografia riguarda non già uno scenografo bensì un insigne cartellonista, Leopoldo Metlicovitz (1868-1943), che lavorò in particolare per le Officine Ricordi. I suoi manifesti pucciniani, a cominciare da quello per Madama Butterfly, e le serie di cartoline sulle trame delle opere sono dei classici nel genere. Di sicuro hanno dato un potente contribuito nel lanciare e fissare l’immagine modernista del melodramma italiano di primo Novecento.

Straordinari davvero questi volumi e la ricerca a essi sottesa: si può solo esprimere grande ammirazione per l’opera magnifica che gli Amici della Scala e Vittoria Crespi Morbio conducono.

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