La confessione di Cesare Battisti, il suo “pentimento” da copione, arriva proprio quando parte la richiesta di estradizione per Alessio Casimirri, ex Br, ora ristoratore in Nicaragua. Sono anime belle quelle che immaginano un arresto in pompa magna per quest’ultimo, con telecamere all’aeroporto e paparazzi, ignari della storia sulla quale stanno seduti. Battisti, dopo aver paludato le proprie azioni omicide con un abito “comico rivoluzionario”, ha scorrazzato a destra e a manca, lasciando tracce in ogni luogo nel quale diceva di volersi nascondere. Cosa mai può rivelare costui? Chi può trarre nocumento dal suo ritorno? Nessuno. Manco quegli “intellettuali”, firmatari precipitosi, che abboccarono al tranello mediatico del romantico rivoluzionario ingiustamente braccato dall’Ovra.

Difficile immaginare eguale epilogo per Casimirri: il compagno “Camillo” è altra cosa, intruppato in ben altre vicende, detentore di ben altre verità. Casimirri era in via Fani, quel crocevia dove Stato e antiStato unirono le loro strade e, a detta di alcuni, anche legato ai servizi. Ciò che gli garantisce un esilio permanente, a lui e ad altri protagonisti armati di quel tempo, è uno degli scheletri nell’armadio dello Stato più maleodoranti: quell’opera di pervertimento della legge che ha portato alla stagione delle trame occulte e delle stragi di Stato, in nome di un’obbedienza a un fine ultimo, il contrasto al comunismo, in funzione del quale la lex italiana diveniva una sorta di codice di seconda mano, un regolamento formale al quale giurare una fedeltà di ottone, giacché la vera parola era data al Patto Atlantico.

Casimirri & co. sono la prova che lo Stato, qualsiasi Stato che si sia consolidato su basi democratiche, ha sempre “trattato” con i mondi fuori legge. L’Italia non fa eccezione a questa regola: dallo sbarco alleato in Sicilia, passando per gli anni di piombo e della morte di Aldo Moro, attraversando i canali sotterranei del patto Stato-mafia, sino ai legami strutturati con il mondo delle curve e con la “Terra di mezzo” di Roma capitale. Tommaso Buscetta a proposito di un altro scheletro ormai dissotterrato, la trattativa Stato-mafia, soleva dire: “Lo Stato italiano non è pronto a conoscere queste verità che non reggerebbe”. La verità alla quale si riferiva, oggi storicamente acclarata (si veda il libro Padrini Fondatori) è che lo Stato ha patteggiato con rappresentanti dell’antiStato una sorta di pace armata, un accordo che permettesse a entrambi di recitare il proprio ruolo.

Cosa era il papellu fatto avere dai Corleonesi dopo la morte di Giovanni Falcone, se non la testimonianza scritta di questo legame? Dunque sì a Battisti che fa il mea culpa, ma scordatevi il gabbio per chi era in via Fani e oggi ne potrebbe parlare. Riportare in Italia uno di quei testimoni chiave comporterebbe il disvelamento di quelle verità che molti politici – e la maggioranza della popolazione – non sono ancora pronti a reggere. Nel film Romanzo di una strage appare ben netta la differenza tra Freda e Ventura (esagitati fascistelli, bramosi di sangue, a viso scoperto sempre) e gli uomini appartenenti agli apparati deviati dello Stato, uno dei quali sa dire “io sono un animale che non lascia traccia” a un Ventura che si sente braccato perché scoperto e ormai bruciato.

Gli uomini ombra della stagione del piombo, quelli che sanno, sono tornati come un Golem a dormire e nessuno ha interesse che si sveglino. Questa la vera natura dei soldati fedeli di quel tempo, terroristi rossi compresi, che serbano i codici di quel patto scellerato. Mentre finisco queste righe, leggo le comiche arrampicature su specchi unti di burro sui quali i “firmatari” oggi, chi più chi meno, stanno cercando di abbozzare per giustificare quelle imbarazzanti firme a difesa del martire Battisti. Ognuno risponde delle sue scelte. Per quel che mi riguarda, sono contento di passare per via Guido Rossa quando mi reco in studio.

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