Devo essere sincera: stavolta ci ho messo un po’ ad accettare questa notizia dall’Iran. Benché sia ormai da anni assuefatta a impiccagioni, esecuzioni pubbliche, condanne a morte, restrizioni e via dicendo, la sentenza nei confronti di Nasrin Sotoudeh mi ha lasciata davvero senza parole. La più famosa avvocatessa iraniana per i diritti umani è stata condannata infatti a 38 anni di carcere e 148 frustate. A darne la notizia su Facebook è stato il marito Reza Khandan dopo aver ricevuto una telefonata dal carcere da parte di sua moglie.

Più volte negli anni ho seguito la vicenda di Nasrin e più volte ho interagito anche con suo marito, che mi dice di non potermi rilasciare dichiarazioni. Anche lui era stato arrestato lo scorso settembre, poi rilasciato su cauzione e precedentemente picchiato davanti alla prigione di Evin, perché aveva provato a chiedere notizie circa sua moglie. Trovo la sentenza iraniana nei confronti di Nasrin un vero e proprio insulto al genere umano, in particolare a quello femminile. Si parla di 148 frustate, che porterebbero alla morte certa del condannato e che solo a nominarle fanno rabbrividire qualunque essere umano dotato di una sana coscienza. La coscienza che invece Nasrin ha dimostrato di avere non lasciando mai il suo Paese o la sua famiglia, ma restando accanto alle persone che lei pensava di poter aiutare con il suo lavoro di avvocato.

Nasrin da sempre aveva preso a cuore il grido di libertà – che da 40 anni non viene ascoltato – delle donne iraniane, ancora sottomesse a un pezzo di stoffa tenuto in testa, il velo appunto, che non hanno scelto di indossare.

Nasrin Sotoudeh era stata arrestata più volte: l’ultima lo scorso luglio, proprio per aver difeso le donne che tra dicembre 2017 e gennaio 2018 si erano tolte il velo, chiamate anche “Le ragazze di Enghelab Street“. Semplici donne che avevano protestato pacificamente contro la legge della Repubblica Islamica che obbliga le donne a indossare il velo (hijab) in pubblico.

Purtroppo le notizie che arrivano dall’Iran e quelle che ruotano attorno alle cause di questo genere non sono mai chiare e spesso anche le informazioni non sono trasparenti. Non abbiamo ancora letto gli atti del processo, ma qualcuno parla di un processo iniquo, una consuetudine in Iran. I giornali iraniani su questa notizia, che ormai ha fatto il giro del mondo e per la quale si sta creando una mobilitazione internazionale, ci vanno cauti e provano a scrivere di una pena diversa da quella citata dal marito, diminuendo il numero degli anni di detenzione.

Ma il problema non cambia, qua si accusa una donna di “collusione contro la sicurezza nazionale”, “propaganda contro lo Stato”, “istigazione alla corruzione e alla prostituzione” e di “essere apparsa in pubblico senza hijab”: le solite accuse trite e ritrite usate dall’Iran quando vuole condannare qualcuno senza una motivazone valida. In Iran qualunque gesto di ribellione nei confronti del regime viene considerato quale “attentato alla sicurezza nazionale“. Nasrin già in passato era stata in prigione, dove ha sostenuto due scioperi della fame per protesta alle condizioni di Evin, il famigerato carcere di Tehran, e le era stato proibito vedere i suoi figli.

Sotoudeh era stata rilasciata a settembre 2013 poco prima dell’elezione del presidente Hassan Rouhani, che aveva dichiarato nella campagna elettorale di migliorare i diritti civili della popolazione. Una campagna che in molti abbiamo sostenuto e nella quale abbiamo creduto, ma i cui risultati tardano ad arrivare.

Non è facile essere donne in Iran e malgrado l’emancipazione degli ultimi anni le donne non sono ancora nella facoltà di poter decidere della propria vita, del proprio abbigliamento. Ed è proprio questo quello che stanno facendo le giovani donne iraniane: rivendicare il proprio diritto alla “scelta”, una parola poco conosciuta in Iran. Si sa che nella Repubblica Islamica dell’Iran una donna non “sceglie”, ma sono gli uomini – dettati dalla religione islamica o chissà, forse da una mentalità arcaica e misogina, a decidere ancora cosa sia giusto o meno per una donna.

Gli uomini in Iran hanno deciso che per una donna cantare è sbagliato, lasciare il Paese senza il consenso di un uomo adulto è sbagliato, partecipare agli eventi sportivi alla presenza di uomini è sbagliato. Ben venga invece il coraggio delle iraniane che sfidano questo sistema anche a costo dell’arresto. Appaiono più che mai appropriate le preziose osservazioni della scrittrice Dacia Maraini che nella prefazione del mio libro Ti Racconto l’Iran. I miei anni in terra di Persia – pubblicato da Armando Editore – auspica per le donne iraniane l’annullamento di tutte quelle nozioni discriminatorie nei loro confronti in vigore dalla Rivoluzione Islamica del 1979.

Finché accetteremo che esistano Paesi nel mondo in cui la libertà alle donne viene ancora negata, potremo pur dire di aver fallito.

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