“Er progetto” è fallito. Un’altra volta. Via l’allenatore a metà stagione. Via pure il direttore sportivo, plenipotenziario e arrivato da nemmeno un anno e mezzo. Significa rinnegare le proprie scelte, ammettere di aver sbagliato tutto. Pagano Eusebio Di Francesco e Monchi, ma la responsabilità è di chi li ha scelti, costretti a lavorare in condizioni impossibili e quindi scaricati.

Il primo fu Luis Enrique: un anno di tiqi-taqa e figuracce, cacciato. Zdenek Zeman ha resistito pochi mesi, giusto il tempo di un po’ di amarcord; il sostituto Aurelio Andreazzoli ha chiuso con l’onta della Coppa Italia persa con la Lazio. Due anni e mezzo per Rudi Garcia, l’illusione della svolta, poi il lento declino di un amore finito. Solo Luciano Spalletti ha portato un po’ di solidità, due piazzamenti in Champions di fila, ma se n’è andato tra i fischi per l’addio di Totti. Di Francesco ha solo fatto la fine dei suoi predecessori, né più, né meno.

Fanno sette allenatori (adesso è arrivato Claudio Ranieri) in otto stagioni. Sette “progetti” – a Roma è una parola che va molto di moda – diversi falliti: la colpa evidentemente non può essere sempre di chi sta in panchina. Questo non significa riabilitare ora la coppia Di Fra-Monchi: se si dovessero giudicare i loro risultati la cacciata sarebbe sacrosanta. Il primo verrà ricordato sempre per la semifinale di Champions 2018, il miglior risultato europeo della Roma degli ultimi trent’anni (e chissà per quanto altro tempo); a dirla tutta, però, ha indovinato una partita in due stagioni (il ritorno magico contro il Barcellona) e per il resto ha fatto solo confusione, come dimostra anche l’ultima disastrosa eliminazione contro il Porto. Per il secondo, invece, il bilancio è addirittura impietoso: Marcano, Olsen, Nzonzi, Kluivert, Coric, Bianda (chi???), praticamente non ne ha azzeccata una.

Se ne vanno meritatamente e comunque finisca il campionato non saranno rimpianti. Ciò detto, bisogna valutare anche il contesto in cui hanno operato. Di Francesco si è ritrovato tra una stagione e l’altra la squadra smantellata, e palesemente indebolita. Quanto allo spagnolo, nessun direttore sportivo per quanto incapace è felice di vendere (e in certi casi svendere) i propri gioielli: se l’ha fatto, è stato per specifico mandato della proprietà. Senza dimenticare il fatto che lui è stato sempre abituato a lavorare su cicli a lungo termine, come a Siviglia. A Roma, invece, il massimo orizzonte temporale di un progetto sembra essere quello di sei mesi.

La verità è che la As Roma, intesa come società, progetti veri non ne ha. Anzi, uno in realtà sì: lo stadio. Sembra essere l’unica cosa che sta veramente a cuore al presidente James Pallotta. Nel frattempo vengono scelti e cambiati svariati allenatori, tutti più o meno con lo stesso profilo (non di primissimo piano, votati dichiaratamente al bel gioco, presi in teoria per costruire un nuovo ciclo), e messi sistematicamente nelle condizioni di fallire. Vengono ceduti ogni estate tutti i migliori calciatori, da Salah e Alisson a Rudiger e Pjanic (ma l’elenco è lungo): persino nell’anno delle semifinali di Champions, che ha portato il record di introiti Uefa, la società ha realizzato la bellezza di 76 milioni di plusvalenze, reinvestendo poco e male. Perché stupirsi poi se i risultati di tale vivacchiare sono questi.

Adesso restano le ultime 12 giornate per provare a salvare il salvabile (ovvero il quarto posto e la qualificazione in Champions), con il buon vecchio Claudio Ranieri. Insomma, una minestrina riscaldata. In attesa del prossimo progetto, o solo dello stadio?

Twitter: @lVendemiale

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