“O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore. O ritira il ricorso, oppure sparisca da qui!”. Il biologo Giuseppe Novelli, rettore dell’università di Tor Vergata (la seconda della Capitale) e vicepresidente della Conferenza dei rettori, lo ha proprio detto. Tutto registrato e documentato. Frasi pronunciate in un colloquio con Giuliano Grüner, avvocato amministrativista, ricercatore a tempo indeterminato, con l’abilitazione scientifica di professore di prima fascia. Stessa situazione del collega Pierpaolo Sileri, chirurgo dell’apparato digerente. Entrambi, colpevoli per Novelli. Colpevoli, dopo aver contestato la decisione di affidare una cattedra ad altri colleghi, di essere ricorsi al Tar. La conclusione della vicenda non c’è, ma registra una novità. Per il rettore l’avviso di conclusione delle indagini, firmato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e del pm Mario Palazzi: tentata concussione e istigazione alla corruzione.


montaggio di Gisella Ruccia

Una storia dell’università italiana. Niente di nuovo, purtroppo. Cambiano le sedi universitarie, mutano i nomi delle persone coinvolte. Ma quasi mai si modificano le accuse. Quasi mai variano i protagonisti. Così le vicende finiscono per assomigliarsi. Da un lato ci sono le persone strutturate all’Università. Professori e rettori, più di rado amministrativi. Ruoli differenti, ma funzionali gli uni agli altri. Parti inscindibili di un sistema che funziona a meraviglia. Includendo oppure escludendo, troppo spesso arbitrariamente. Dall’altro lato ci sono gli “aspiranti”. Insomma la schiera di quelli che il più delle volte già lavorano negli Istituti e nei Dipartimenti oppure sono ai margini, ma ambiscono a divenire strutturati. Persone che, dopo anni di precariato, vorrebbero quelle certezze che ancora non hanno.

Desiderio legittimo. Ambizione giustificata. Non di certo nelle Università italiane, nelle quali le regole le fanno quelli che decidono. Che si tratti di un concorso a cattedre, di un assegno di ricerca oppure di un dottorato, poco cambia. È consuetudine, interrotta da rarissime eccezioni, quella che fin dai requisiti richiesti nei differenti bandi sia possibile capire chi si vuole favorire. Chi finirà per vincere. È abitudine, anzi, bandire concorsi per professori e assegnisti non perché sia necessario accrescere le risorse umane di qualche istituto di una Facoltà, ma piuttosto perché si debba far spazio a qualcuno. Si potrebbero chiamare concorsi ad personam. In ogni caso, nella sostanza, lo sono.

Protestare? Inutile, anzi controproducente, come dimostrano tante vicende. Si rischia di rimanere al palo. Per sempre. Chi disturba il guidatore, viene fatto scendere. “O ritira il ricorso, oppure sparisca da qui!”, le parole del rettore Novelli, in questa circostanza.

Chi pensasse che però, a dispetto di tutto, sia possibile almeno partecipare, sbagliererebbe. Chi s’illudesse che, prima di protestare, valga la pena provare, commetterebbe un errore. Spesso “è meglio non andare”, consigliano i confezionatori del concorso. Non vogliono avere seccature. E poi non si sa mai. Magari accade che i vincitori in pectore svolgano le diverse prove d’esame in maniera davvero insostenibile. Circostanza questa che non si verifica quasi mai. Con il supporto, neppure tanto mascherato della commissione, le prove il più delle volte vengono superate in maniera egregia, “dimostrando una indiscutibile maturità scientifica”, accompagnata da “una capillare conoscenza del settore di competenza”.

Quanto questo metodo sia sbagliato e dannoso, escludendo troppo spesso ricercatori capaci, è evidente. Quanto sia mortificante, perché certifica che l’illegalità e l’abuso sono quasi una consuetudine, una realtà incontrovertibile. La giustizia accerterà le eventuali colpe del rettore di Tor Vergata, naturalmente. Ma non è necessario attendere la sentenza per affermare che il sistema è malato. L’Università è ancora un circolo esclusivo, nel quale si entra ad invito. Altrimenti si resta fuori, a prescindere da quel che si è prodotto. A prescindere da quel che si è costruito. Tutto questo non è propriamente uno spot all’affermazione professionale, attraverso il proprio impegno.

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