“Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente.” Queste sono le parole di Vincenzo Visco, ex ministro dell’Economia. Così inizia il libro inchiesta “Gli abusi del Fisco – Come possiamo difenderci”, edito da Chiarelettere. Un’antologia di storie “amare”, spesso simili tra loro e di rivelazioni di insider del Fisco – ex dirigenti – che confessano i meccanismi interni, le stanze dei bottoni, e che in un capitolo consigliano come difendersi dagli accertamenti errati. Calcoli su presunte evasioni fatti applicando formule matematiche inesistenti, accertamenti campati in aria, frutto di un meccanismo distorto nell’interpretazione delle norme. E può capitare che il fisco ricavi il “nero” in maniera discrezionale con valutazioni non scientifiche o falsificabili. La fattispecie più critica è quella degli “accertamenti fiscali induttivi” (Art. 39, comma 2, dpr 600/1973) detti anche “presuntivi”.

1) Come funziona un accertamento?

Per capire il contesto bisogna capire come funziona concretamente un accertamento fiscale. Di solito arrivano due funzionari, contestano una certa cifra evasa, e dopo l’imprenditore può dire la sua in “adesione” – la fase che precede il contenzioso in tribunale – in questo momento il fisco aggiusta la mira e stralcia la cifra contestata del 45% (media nazionale – ultimo dato noto: NaDEF 2015 -, ma in alcuni casi può arrivare a tagliare il 70-80%). Dopo questo “sconto” l’imprenditore che deve scegliere se “aderire” o andare in “tribunale”. L’imprenditore onesto che si trova in questa situazione, seppure convinto di non avere evaso un euro, deve fare delle valutazioni prima di difendersi. Perché entrare in “tribunale” costa, e parecchio.

2) Difendersi è quasi impossibile

Solo per mettere piede in tribunale si paga il 33% dell’importo conteso (si chiama tecnicamente: “riscossione frazionata”). Nei processi tributari si invertono i principi alla base del “diritto”: si è colpevoli fino a prova contraria. Intanto paghi 1/3 per accedere al primo grado di giudizio, poi 2/3 per il secondo grado. A questi vanno aggiunti avvocati, tributaristi, commercialisti: un altro 10-15%. Fatevi due conti. Un imprenditore, insomma, anche se non ha evaso un centesimo deve mettere mano al portafogli e armarsi di coraggio, tenacia, e notti insonni. Tra i protagonisti c’è chi ha subito accertamenti con formule matematiche inesistenti, errori da terza media (ripetuti per anni, cosi affermerebbe un funzionario dell’agenzia emiliana), calcoli di utili legati alle ore (come si fosse nel cottimo). C’è chi avrebbe evaso 42mila euro, poi azzerati, chi – salumiere – ne avrebbe evasi 1,2 milioni, poi azzerati, chi – da panettiere – 145mila, poi ridotti a 8mila euro. Gente che dopo la visita del fisco ha licenziato i dipendenti, ha ridotto la produzione, ha perso la voglia di fare impresa in Italia.

3) La logica del Fisco

Chi traccia le linee guida dell’azione fiscale? Tra Mef e Fisco esiste una Convenzione triennale, questa stabilisce gli obiettivi e le performance. Parametri molto rigidi ai quali corrispondono premi in denaro. Secondo Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), in agenzia “non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque”. Vincenzo Visco è anche più critico: “Pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi“. Per non parlare dei paradossi di certi obiettivi. “Imbattersi in un contribuente che è essenzialmente onesto e che al massimo si ritrova ad aver fatto qualche violazione formale sulla quale si potrebbe e si dovrebbe passare sopra finisce per essere, anziché un piacevole incontro da chiudere con una stretta di mano, una pericolosa diseconomia operativa per chi appunto deve raggiungere un obiettivo quantitativo prefissato”, è l’opinione di Enrico Zanetti, ex vicepresidente dell’Economia.

4) Il 94% deve aver evaso

E se poi si fa un passo avanti e si punta la lente su uno di questi obiettivi – tra i tanti – si rischia anche di finire in labirinti illogici. Ad esempio, la Convenzione triennale 2018-2020 stipulata tra il Mef e l’Agenzia delle entrate, prevede un tasso di positività dei controlli del 94%. “Si continua a prevedere che nel 94 per cento dei controlli deve essere trovato qualcosa; i cittadini spesso si interrogano su come sia possibile che ogni volta che c’è un controllo gli trovino sempre qualcosa. Ecco, bisogna dire ai cittadini che è scritto nero su bianco, gli uffici dell’Agenzia devono fare questo – e conclude, Enrico Zanetti – è follia”.

5) Il Fisco perde quasi la metà delle volte in contenzioso

Errori, anomalie, sviste possono essere anche fisiologiche. Per capire l’ampiezza del fenomeno va fatta una valutazione statistica. La metà delle volte gli enti fiscali perdono in contenzioso tributario, tant’è che il 50,62% delle volte ricorrono in appello (Rapporto Mef 2017, sui contenziosi). Nel 2017, i contenziosi – nuovi, esistenti e definiti nel corso dell’anno -, erano 700mila. Numeri importanti, non inezie: 700mila professionisti, imprese, dipendenti, famiglie coinvolte. Tanto che pure la Suprema Corte di Cassazione si trova ingolfata. Basti pensare che un giudice su due è impegnato a dirimere questioni fiscali invece di occuparsi di corruzione, omicidi, terrorismo, deve mettersi a fare i conti.

6) Arbitrarietà e corruzione 

Il concetto chiave è quello di “arbitrarietà“. Tutto gira attorno a questa singola parola: arbitrarietà nelle valutazioni, arbitrarietà negli accertamenti fiscali, ed è uno dei tasselli più importanti. Anche la Cassazione fotografa lo stesso panorama. Una sua recente decisione (la 35940, 27 luglio 2017) in tema di corruzione tocca lo spinoso profilo dei rapporti affetti da “discrezionalità amministrativa”. Dove c’è arbitrarietà c’è inevitabilmente un confine fumoso, grigio, un margine fluttuante nel quale possono giocarsi i destini del fisco.

7) Giudici corrotti perché malpagati

Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario tributario 2017 – in un passaggio molto crudo –, Mario Cavallaro, presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, commenta i “dolorosi episodi di malcostume” che hanno portato all’ondata d’arresti di giudici tributari. Un duro colpo, inferto, secondo il presidente, anche per colpa delle misere paghe dei giudici. “Pagare adeguatamente i magistrati tributari li metterebbe al riparo dalla tentazione della mazzetta”. In effetti la magistratura tributaria tratta affari di grande rilievo economico: negli ultimi anni la media della massa monetaria che doveva essere definita in giudizio era di circa 30 miliardi di euro. Ma un giudice tributario prende circa 400 euro al mese. Ovvero 4000-5000 euro l’anno.

8) Inchieste in corso

Nel 2016 ci sono stati un centinaio di procedimenti di incompatibilità e disciplinari all’interno della magistratura tributaria. Nel 2017, 81 affari disciplinari e 78 di incompatibilità. In due anni il Consiglio ha visto traballare 250 giudici. Sul fronte Agenzia delle entrate, al 31 dicembre 2017, sono finiti sotto inchiesta 455 dipendenti, 107 sono stati condannati. Le accuse vanno dalla corruzione all’accesso abusivo al sistema informatico. Di questi, un solo dipendente, in un anno, ha alterato dati fiscali per oltre 2.278 pratiche.

9) Il Fisco agisce come un’azienda che deve fatturare

Il Fisco dovrebbe contrastare le nuove forme di occultamento di capitali e trovare nuove formule per intercettare le ricchezze che le grandi aziende e multinazionali producono nel nostro paese ma fanno tassare (per cifre bassissime) nei paradisi fiscali. Invece, come fosse un’azienda come tutte le altre, si occupa solo di raggiungere i risultati richiesti dal Mef.

10) 850 miliardi di crediti inesigibili (l’Agenzia non è in grado di riscuotere o accerta cifre inesistenti?)

L’ex Equitalia – oggi Agenzia delle Entrate Riscossione – vanta 850 miliardi di crediti – maturati negli ultimi 15 anni. Secondo Ernesto Ruffini, ex direttore dell’Agenzia, saranno riscuotibili forse nella misura del 5%. In soldoni significa che nel 95% degli accertamenti le richieste del Fisco sono andate a vuoto. Questo significa o che l’Agenzia non è in grado di recuperare quello che accerta, o – per come vengono svolti e calcolai gli importi degli accertamenti – quella cifra è inesistente perché calcolata male.

Vincenzo Visco ha usato una parola molto forte, “ricatto”. Cosi ha definito la pressione a cui sono sottoposti gli imprenditori per accettare le presunzioni di nero che gli vengono notificate. Una pressione notevole sulle piccole imprese, le più accertante. Un fisco che funzioni deve reprimere con forza gli evasori, certo, gli Al Capone di turno. E dovrebbe intercettare le nuove forme di ricchezza create sul web. Dovrebbe garantire una equa redistribuzione del carico fiscale, per far si che i servizi pubblici sussistano. Tant’è che la redistribuzione squilibrata delle risorse – secondo l’Oxfam –, e quindi di ricchezza e povertà, è determinata dai sistemi fiscali distorti. Il fisco dovrebbe tenere conto dell’Art. 53 Costituzione, ovvero della “capacita contributiva” e del costo insito nel rischio d’impresa. Dovrebbe permettere una difesa indolore, con costi contenuti, e per farlo deve esserci il divieto di raddoppiare o triplicare sanzioni e more, in caso di avvio del procedimento di difesa. Inoltre, è necessario un coordinamento con un ufficio unico tra entrate, dogane, GDF con condivisione dati. E non solo, mettere in condivisione anche le banche dati di tutta la PA. Cosi si avrebbero le informazioni giuste, per ridurre l’arbitrarietà e la presunzione. Per risolvere questi problemi – almeno in Italia – basterebbe che l’Agenzia “accertasse” solo se sicura al 99 per cento delle proprie ragioni, applicando il principio giuridico in dubio pro reo. Nessuno modificherebbe i suoi accertamenti – contraddittori, mediazioni, fino al tribunale tributario – sapendoli inattaccabili e nella ragionevole certezza che, sottoposti al giudice, verrebbero confermati.

Il Fisco va ripensato anche a livello internazionale, perché la ricchezza che va tassata, quella vera, fugge dai paesi dove è creata e viene tassata quasi zero nei paradisi fiscali. Stiglitz ha teorizzato la Unitary Taxation per contrastare questa elusione, che vale centinaia di miliardi. Secondo questo principio, le multinazionali sarebbero considerate fiscalmente come una sola entità e quindi i loro guadagni sarebbero distribuiti fra le filiali in funzione della reale attività economica svolta in quel dato paese. Questo sarebbe un punto di partenza.

di Peter D’Angelo e Fabio Valle

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