Nel 1990 ebbe grande successo nelle sale cinematografiche la storia di una squilibrata che sequestra e tortura l’autore di una serie di sette romanzi con una protagonista di nome Misery. Quando apprende, da anticipazioni di stampa, che sta per uscire un ottavo libro in cui Misery muore, la squilibrata sequestra e tortura l’autore per costringerlo a scrivere un nono libro in cui la sua eroina resuscita. Il film si intitolava appunto Misery non deve morire.

A giorni sarà presentato un libro di Eugenia Roccella dal titolo Eluana non deve morire, chiaramente ispirato al film per il quale Katy Bates vinse un Oscar. E proprio per questo devo dedurre che la Roccella non abbia visto il film. Altrimenti rischierebbe di mettere se stessa – e tutti i politici che volevano impedire a Eluana Englaro di trovare finalmente una “morte degna”- sullo stesso piano della squilibrata del film.

Fatto sta che per presentare questo libro (a Roma il 12 febbraio, tre giorni dopo la morte di Eluana) la Roccella ha messo insieme fra gli altri Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, tristemente famoso perché il giorno in cui arrivò in Senato la notizia della morte di Eluana urlò “assassino” a Beppino Englaro e dichiarò: “Eluana non è morta, Eluana è stata ammazzata”. Quello fu l’episodio più vergognoso di una vicenda che vide da un lato un padre coraggioso che chiedeva la possibilità di morire per una figlia in stato vegetativo da 17 anni, dall’altro un gruppo di clericali scatenati che trascinarono l’incauto Berlusconi a tentare addirittura la strada di un decreto legge (subito bocciato dal presidente Napolitano) che costringesse Eluana a vegetare ancora per molti anni.

Se dunque la sortita della Roccella e dei suoi amici non sorprende più di tanto, preoccupa quella di Francesco Ognibene sul quotidiano della Cei, Avvenire, dove la proposta di legge sulla legalizzazione della eutanasia viene presentata come “morte di Stato per i disabili”. Come se fossimo ancora ai tempi di Ruini, che tre anni prima della morte di Eluana aveva spietatamente vietato i funerali in chiesa per Piergiorgio Welby, benché richiesti dalla moglie, dalla sorella e dalla madre, tutte e tre cattoliche (funerali religiosi solennemente celebrati negli stessi giorni per il boia Augusto Pinochet).

Questa presa di posizione integralista di Avvenire può stupire solo chi crede davvero che Papa Francesco voglia e possa determinare una svolta nella politica del Vaticano sui “temi etici”. Ma cosa possiamo aspettarci da un Papa che definisce “sicari” i medici che praticano l’aborto in attuazione di una civilissima legge dello Stato italiano? Per conto mio, desidero solo rendere omaggio alla figura di Beppino Englaro, che ho avuto la fortuna di conoscere e con il quale mi sono incontrato più volte in convegni e dibattiti sulle scelte di fine vita.

Beppino è un uomo straordinario, a un tempo dolce e determinato: un padre amoroso come pochi altri, che per 17 anni si è battuto non per l’eutanasia – di cui non è un sostenitore – ma per il diritto della figlia a trovare finalmente un termine alla sua condizione vegetativa: in sostanza, quella sospensione delle terapie e quell’accompagnamento alla morte che vengono praticatati da sempre negli ospedali e nelle cliniche, anche in quelle cattoliche, come ha dichiarato coraggiosamente, nel dicembre del 2016, il professor Mario Sabatelli, primario del più importante ospedale cattolico, il Gemelli. Ecco uno dei punti salienti delle sue dichiarazioni: “Anche il Magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”.

Non penso però che la Roccella e i suoi amici integralisti possano incidere sulle decisioni che il Parlamento assumerà in materia di scelte di fine vita. Penso invece che finalmente si stia avvicinando il momento in cui anche l’Italia si doterà di una legge civile sulla eutanasia, che conterrà tutte le norme atte a garantire che “la dolce morte” sia applicata solo ai malati terminali e a quelli con intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche.

L’inizio della discussione sulla proposta di legge di iniziativa popolare presentata nel settembre del 2013 dalla Associazione Luca Coscioni con 130 mila firme di cittadini/elettori appare promettente, per le posizioni aperte sia della sinistra sia del Movimento 5 Stelle, a partire dal presidente Fico. Dobbiamo questo faticoso progresso a quanti si sono battuti per la libertà nelle scelte di fine vita. Fra loro, in ordine di tempo, vorrei ricordare solo – oltre a quella di Eluana – tre delle vicende più note e più drammatiche ed i loro protagonisti:

1. Piergiorgio Welby, la moglie Mina e il coraggioso medico, Mario Riccio, che nel dicembre del 2006 rischiò 12 anni di carcere per aiutare Welby a trovare finalmente pace;

2. il malato di Sla Giovanni Nuvoli, che ad Alghero, nel luglio del 2007, si è lasciato morire di fame e di sete perché giudici e carabinieri impedivano a un altro medico coraggioso (Tommaso Ciacca) di aiutarlo a morire senza inutili sofferenze

3. Dj Fabo, che fu aiutato da Marco Cappato a morire in Svizzera, con il processo che ne seguì e che commosse l’intera Italia. Per questo dobbiamo essere grati a Fabo, ai suoi dolcissimi familiari, a Cappato e ai suoi avvocati – coordinati magistralmente da Filomena Gallo – che hanno portato ad uno straordinario risultato: la decisione della Corte Costituzionale di dare al Parlamento un termine perentorio (il 24 settembre) per legiferare sulla eutanasia.

Ma voglio ricordare anche la mia battaglia per rendere nota la realtà dei mille malati (fra loro, mio fratello Michele) che ogni anno – non potendo ottenere con l’eutanasia una “morte degna”- trovano nel suicidio la loro “uscita di sicurezza”. Una battaglia per la quale ho trovato il risolutivo sostegno dei congiunti di tre “suicidi illustri”, Mario Monicelli, Lucio Magri e Carlo Lizzani. E che ha indotto il presidente Napolitano a sollecitare pubblicamente un dibattito parlamentare sull’argomento.

Per concludere, voglio dire a Beppino Englaro che egli mi ricorda il protagonista di uno splendido romanzo breve di Von Kleist, Michael Kohlaas, in cui un uomo cerca instancabilmente giustizia per un torto subito (da qui il famoso “Cè un giudice a Berlino?”). E alla fine lo trova. L’immagine di Eluana con la sua pura bellezza sarà sempre nei nostri cuori, assieme al ricordo della tenacia e del coraggio del più tenero dei padri.

Articolo Precedente

Non solo migranti, storie di uomini e donne in lotta per i propri diritti: “Non è più il tempo della poesia”

next
Articolo Successivo

Maddalena, sgomberata tre volte, ora è vittima della spazzatura delle bugie

next