“Il sabato notte non fu un bel niente mentre la domenica fu una vera bastarda. Un vuoto assoluto blu e fresco, l’aria pesante come un panno bagnato. Alle undici gli telefonò la madre dicendogli che pensava fossero andati in chiesa. Lui rispose che se fossero andati in chiesa come diavolo poteva immaginarsi di parlare con loro al telefono. Dopo di che tutto andò storto”.

Pubblicato 16 anni dopo il suo capolavoro (Il mio angelo ha le ali nere, ne ho parlato qui), La fine di Wettermark di Elliott Chaze (traduzione di Livio Crescenzi; Mattioli 1885) è uno straordinario ritratto, amaro e impietoso, di un uomo qualunque che, mosso dalla disperazione, si illude di stravolgere la propria vita attraverso un espediente criminale. 

Siamo a Catherine (luogo di finzione che richiama nelle sue caratteristiche Hattiesburg, la cittadina in cui viveva Chaze), nel sud del Mississippi, quasi al confine con la Louisiana nel pieno degli anni Sessanta. Cliff Wettermark, ex alcolista ed ex tabagista, è un giornalista del Call, il quotidiano locale, indebitato con il proprio istituto di credito, che vive in una casa che cade a pezzi insieme alla moglie “drogata” di caramelle gommose e cibo messicano e che necessita di farsi curare i denti – dirimpetto ai “minuscoli” Campbell, una famiglia di battisti -, romanziere frustrato e rifiutato, che ha appena scoperto di avere un cancro alla radice del naso. Dopo essere andato, per lavoro, in una banca a seguito di una rapina, decide che c’è bisogno di una svolta estrema per cambiare il corso della propria sfortunata esistenza. La decisione lo porterà a vivere una serie di avventure tragicomiche, disperate e stranianti che lo condurranno,e con lui il lettore, all’inevitabile, definitivo finale.

Grazie a una scrittura cinica, veloce e insieme minuziosa, Chaze riesce a costruire un affresco reale e credibile non solo dell’animo umano, ma anche della comunità di Catherine e dei fatti sociali e politici del periodo (il razzismo del Sud degli Stati Uniti, politicanti e poliziotti ottusi, il Vietnam, le serie televisive, le mode). Una prosa scarna ed essenziale, personaggi vivi, pulsanti, tratteggiati con pochi tocchi indelebili. Un’atmosfera che ricorda il miglior Georges Simenon, ma anche James M. Caine e Cornell Woolrich.

Elliott Chaze sceglie per il suo antieroe una narrazione esterna, scevra da qualsiasi giudizio morale. Tutto ciò che Cliff Wettermark dice e fa va visto come la grottesca rappresentazione di una tipologia di essere umano: quella del perdente nato. Di colui che non comprende più quale sia il suo posto nel mondo ma che tenta disperatamente, attraverso l’ipotetica strada più semplice, di conquistarsene uno: “Starsene da soli è una faccenda delicata, l’intimità va calibrata in modo così fragile che – anche se uno l’ha desiderata – quando ne hai anche appena un poco di più di quello che ti serve, non è più affatto intimità. Non è più un lusso. Diventa solitudine, e la solitudine non è in alcun modo simile all’intimità, sebbene l’una e l’altra siano fatte della stessa sostanza”.

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