VENEZIA – Due anni fa, quando divenne di pubblico dominio, il caso fece scalpore. Attraverso le dichiarazioni di alcune sindacaliste della Cgil di Padova fu ricostruita la vicenda di una giovane donna, una professionista quarantenne, che voleva abortire, ma si sarebbe trovata di fronte un muro di incomprensione e di rifiuti. In totale, secondo il calcolo che venne effettuato, ben 23 strutture sanitarie del Veneto le avrebbero opposto un diniego. Partirono denunce e inchieste sull’applicazione della legge 194, che sembrava non essere rispettata. A distanza di quasi tre anni due sindacaliste risultano indagate per diffamazione, ovvero per aver accusato ingiutamente il Servizio sanitario locale del Veneto di aver ostacolato l’applicazione della legge relativa all’interruzione volontaria della gravidanza.

La procura della Repubblica aveva aperto un’inchiesta, che alla fine si è ritorta contro le due sindacaliste. Adesso la fase istruttoria si è conclusa ed è rimasta solo l’ipotesi di diffamazione che riguarda la donna autrice della denuncia e la collega sindacalista. Quest’ultima aveva contattato i giornalisti, raccontando loro la storia di un diritto negato. Ma proprio il numero elevatissimo di strutture sanitarie coinvolte aveva fatto sorgere dei dubbi, anche se in Veneto il problema dell’applicazione della 194 – secondo prese di posizione dlela stessa Cgil – è reale. La richiesta di interruzione di gravidanza era avvenuta a cavallo delle festività natalizie del 2015 e anche per questo la donna aveva dichiarato di avere trovato degli ostacoli. L’epilogo, con l’aborto avvenuto nel gennaio 2016 nell’ospedale di Padova, – fu detto allora e venne riportato dai giornali – era stato reso possibile grazie all’intervento del sindacato che avrebbe fatto pressioni presso i vertici della struttura sanitaria.

Invece, secondo la Procura, “la prestazione di interruzione della gravidanza fornita e garantita alla donna dal Servizio sanitari locale è stata pienamente rispettosa dei tempi previsti dalla legge”. E’ stato così archiviato il fascicolo relativo al comportamento delle strutture sanitarie coinvolte, mentre è rimasto aperto quello per le dichiarazioni delle due donne. Nel processo la Regione Veneto è intenzionata a costituirsi parte civile, mentre persone offese risultano essere il dottor Domenico Scibetta, in quanto direttore generale e legale rappresentante pro tempore dell’azienda sanitaria Ulss 6 Euganea, e il dottor Luciano Flor, direttore generale e legale rappresentante dell’azienda ospedaliera.

L’avvocato Lucia Rupolo, difensore di Paola Fulgenzi, ha dichiarato a Il Gazzettino: “Non esistono gli estremi della diffamazione in quanto dichiarato dalla mia assistita”. La Cgil ha, invece, diffuso una nota in cui precisa che le due sindacaliste “sono serene e pronte a dimostrare nelle sedi opportune la piena legittimità della loro condotta e l’insussistenza di qualsivoglia profilo di responsabilità penale a loro imputabile”.

Nell’aprile 2017 l’assessore regionale alla sanità, Luca Coletto (attuale sottosegretario) aveva diffuso una nota in cui spiegava che i carabinieri del Nas avevano accertato che la donna si era rivolta il 15 dicembre 2015 a un consultorio per abortire. Era stata dirottata all’Azienda ospedaliera di Padova, per la visita ginecologica, avvenuta il 23 dicembre. La data per l’interruzione volontaria della gravidanza era stata fissata per il 12 gennaio 2016, nei termini di legge. In realtà poi la donna aveva effettuato 23 telefonate, contattando una decina di strutture ospedaliere, per anticipare la data, senza però riuscirvi. Non erano 23 le strutture, ma soltanto le chiamate telefoniche. Tanto bastò allora all’assessore Coletto per dichiarare: “La salute è un bene delle persone, non uno strumento della politica del disfattismo. Le bugie hanno la lingua lunghissima, ma per fortuna hanno le gambe corte”.

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