Si fa presto a dire “free”, soprattutto sul web. Chi ha una minima conoscenza dei meccanismi che regolano Internet ha ben presente, infatti, che nel World Wide Web non si dà niente per niente. Tutti i servizi gratuiti di cui usufruiamo ogni giorno (email, motori di ricerca, social network e chi più ne ha più ne metta) hanno dei costi – non poi così tanto – nascosti che solitamente hanno a che fare con la nostra privacy.

La contropartita per avere a disposizione strumenti di comunicazione, piattaforme online, applicativi e servizi di ogni genere è una e solo una: la nostra disponibilità a essere tracciati, profilati, analizzati e catalogati a scopo di marketing. Ci va bene? Beh, a guardare il numero di utenti di Google, Facebook e soci sembrerebbe proprio che per molti di noi la risposta sia sì.

Qualcuno, però, sta cantando fuori dal coro. È il governo francese, che ha recentemente annunciato di voler abbandonare il motore di ricerca di Google (considerato il totem della profilazione online) per passare a Qwant, un motore di ricerca franco-tedesco che fa del rispetto della privacy il suo vessillo.

Che succede? Il solito vizietto francese di puntare all’autarchia culturale? Un rigurgito di rispetto per il tema della privacy e il contrasto allo strapotere delle multinazionali? Niente di tutto ciò. La scelta del governo Macron ha probabilmente motivazioni diverse. La Francia, infatti, è uno dei pochi governi che sta cercando di affrontare seriamente la questione della cosiddetta “cyber warfare”, la guerriglia informatica che negli ultimi anni sta vivendo una fase di escalation terribilmente preoccupante e che ha nella raccolta dei dati (anche attraverso aziende private come Google) uno dei terreni di scontro più spinosi.

La decisione di “mollare” il motore di ricerca di Mountain View arriva infatti dopo che Emmanuel Macron ha dovuto incassare uno sgarbo piuttosto pesante da parte degli Usa, che hanno declinato quella “Paris Call” che nelle intenzioni del presidente francese avrebbe dovuto segnare l’avvio dell’elaborazione di una sorta di “Convenzione di Ginevra” del cyber-spazio.

L’appello era stato lanciato in contemporanea con le cerimonie per il centenario della fine della grande guerra e ha incassato l’appoggio di 51 governi, ma con qualche (rilevante) defezione, tra cui Russia, Cina, Nord Corea e Stati Uniti. Di più: il governo Trump è riuscito a trascinare con sé alleati storici come Israele, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda. Il “niet” degli ultimi tre, in realtà non è una grande sorpresa. Insieme Al Canada (che però ha aderito all’iniziativa) compongono il cerchio dei “Five Eyes”, il nocciolo duro del sistema di spionaggio globale a stelle e strisce.

Insomma: lo schiaffo a Google (il governo francese ha sottolineato che a non usare più il motore di ricerca dell’azienda californiana sarà in primis l’esercito) suona come una ritorsione allo sgarbo di Trump, ma potrebbe essere il primo di altri segnali di insofferenza di chi non ne può più di fare finta che Internet sia un ambito neutrale in cui non ci sono frizioni e tensioni di carattere geopolitico. Dopo il Datagate, infatti, è chiaro che anche le “democrazie occidentali” non hanno un atteggiamento molto diverso da Russia, Cina e Nord Corea in tema di cyber-spionaggio. La novità è che con le politiche sovraniste di Trump, la fiducia è diventata moneta rara anche tra gli alleati Nato. E l’iniziativa francese lo conferma.

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