L’assalto dei “barbari” è stato respinto. L’Italia ha battuto la Georgia 28-17, la nazionale più forte dell’Europa di Serie B, quella che vorrebbe prendere il nostro posto nel Sei Nazioni e nel rugby che conta. La lunga serie di sconfitte consecutive (nel prestigioso torneo continentale siamo ormai a quota 17), il ranking mondiale (dove i caucasici ci avevano da tempo superato), i tanti problemi del movimento ci avevano quasi fatto credere di non meritarcelo più. Il campo ci ha rassicurato. Un pochino.

Quella di Firenze era molto più che un’amichevole: un vero e proprio spareggio per il Sei Nazioni, il torneo a inviti di cui l’Italia fa parte dal 2000 e racchiude l’élite del rugby europeo. Un’ammissione conquistata sul campo negli anni 90, l’età dell’oro dei pionieri di Dominguez, Troncon e Georges Coste in panchina, a suon di vittorie storiche. Vent’anni dopo la storia si ripete, solo che stavolta siamo noi i ricchi privilegiati, e i georgiani vestono i panni di “barbari” del rugby che spingono ai confini dell’impero. Il Sei Nazioni è un torneo a inviti, un ricco contratto fra Federazioni ricche: nessuno può obbligare il board ad aprire ad altre nazioni (e peraltro la Georgia, che ha uno stadio a Tbilisi e non a Roma, i monti del Caucaso e non il Colosseo da offrire agli sponsor, non è così allettante). Però alla lunga la pressione del campo e dei risultati sarebbe diventata insostenibile, proprio come fu 20 anni fa dopo il trionfo di Grenoble nel 1997, quando gli azzurri battendo la Francia dimostrarono di meritarsi il pass. Per questo la sfida di Firenze era uno snodo cruciale per le sorti del rugby nostro, loro e di tutta Europa.

La Georgia chiedeva questa partita da 15 anni: l’ultimo precedente, nel 2003 ad Asti, finì 31-22. Da allora più nulla, un po’ per i criteri del calendario internazionale, un po’ perché noi da uno scontro diretto avevamo troppo da perdere. Abbiamo dovuto concederlo sull’onda dei risultati recenti. Una sconfitta sarebbe stata l’apocalisse, la certificazione del fallimento del progetto italiano, probabilmente il primo passo per la rivoluzione nel Sei Nazioni. Per fortuna non è successo. L’Italia ha sofferto dieci minuti all’inizio e alla fine, per la tensione e per la stanchezza.

La Georgia ha giocato meglio, con una fame e un’intensità diversa: loro giocavano per un sogno, noi solo per mantenere un privilegio, e anche questo si è visto. Si sono meritati tutti gli applausi, però abbiamo vinto noi: siamo ancora superiori, come dimostra il risultato finale, i tanti errori tecnici, i falli, le ingenuità degli avversari. Il divario resta, tra la Georgia e l’Italia, un po’ come tra l’Italia e le grandi d’Europa. Rimaniamo in questo guado, senza la più pallida idea di come colmare il gap dalle big, con l’impressione di scivolare lentamente verso l’indietro. Ma almeno non siamo sprofondati.

Twitter: @lVendemiale

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