Mi chiedono perché a trentatré anni, vivo ancora in un appartamento di tre stanze (compresa la cucina, con il tavolo dove mangio), vado a lavorare alle dieci di mattina, ho i mercoledì pomeriggio liberi e passo così tanto tempo a correre e a scoparmi delle ragazzine. Non sono contrari alla corsa, ma al fatto che lo faccia durante le lunghe pause pranzo, riprendendo a lavorare solo a pomeriggio inoltrato; né si oppongono alle ragazze, ma insistono sul fatto che dovrei avere una relazione stabile, e sposarmi e farmi una famiglia. Non so cosa rispondere. Ma quando mi dicono che ho trentatré anni, resto spaventato per diversi secondi, a volte anche minuti. È strano: nessuno è più cristiano, ma ogni uomo che conosco che raggiunga l’età di trentatré anni, ha il timore di non arrivare ai trentacinque, come se nessuno di noi potesse dimenticare che la morte più illustre nella nostra cultura è avvenuta a trentatré anni.

Un’ultima inutile serata di Andre Dubus (traduzione di Nicola Manuppelli; Mattioli 1885), uscito nella versione originale quasi in concomitanza con il terribile incidente stradale che ha visto coinvolto l’autore e che gli ha causato l’amputazione di una gamba, è, probabilmente uno dei suoi lavori più riusciti. Gli echi di James Jones e Richard Mason rimbalzano nelle ore successive al crepuscolo, attratti dal tema dominante della raccolta: la sera, vista come momento di passaggio, di cambiamento. Inquietudini e turbamenti quotidiani della povera gente si mischiano a discorsi sul razzismo e la sessualità in un mosaico preciso, pulito e naturalmente commovente.

I personaggi de Un’ultima inutile sera sono un campionario di un’umanità fin troppo normale, un’umanità tratteggiata con profonda stima e onestà. Dai due protagonisti del primo racconto lungo, Le morti in mare, segnati dalle questioni sociali dei primi anni Sessanta, affresco intimo di una certa mentalità del Sud proiettata nelle navi da guerra del Pacifico e in quei bar giapponesi per truppe occupanti, fino ad arrivare alla passiva Rose, complice, suo malgrado, delle violenze familiari a cui assiste, che trova al bancone del Timmy’s, il bar che diviene collante dei racconti, la forza di parlare e condannarsi.

C’è una dedica speciale a James Crumley ne La terra dove sono morti i miei padri (dedica ripetuta in Rose, dove il narratore ammette di aver fatto il barista nel corso degli anni, proprio come C.W. Sughrue, il personaggio più celebre di Crumley), storia di immigrazione greca e di nevrosi da peso forma e abusi di potere. Ci sono gli strascichi del Vietnam e gli orrori dell’Agente Arancio, i villaggi in fiamme e Charlie sempre all’erta, pronto a comparire nelle sembianze di un 11enne che torna a casa da scuola in Vestito come foglie d’estate. Ci sono giocatori di baseball che impazziscono in Dopo la partita.

E ci sono Molly e sua madre in Molly, a mio avviso il racconto più riuscito del libro. Un piccolo capolavoro di ritmo, intensità e nodi narrativi. Il rapporto tra madre e figlia è tratteggiato in modo straordinario. Un gioiello di turbamenti adolescenziali e di forza genitoriale:

Percepì che ora Molly, lì insieme a lei a fare le pulizie, era più simile a una figlia adulta che passa a trovare i genitori piuttosto che alla bambina da cui faceva ritorno quando tornava a casa dal lavoro, e che aveva, con amore e orgoglio, guardato crescere: il suo giovane corpo diventava aggraziato, il suo cervello intuitivo e indipendente, e cominciava a formarsi un carattere proprio con una solidità morale e intellettuale. Ma sapeva che, col tempo, quel senso di distanza e tristezza sarebbe passato. Una notte e un giorno. Due o tre giorni. E riuscì, senza volerlo, a sorridere a Molly.

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