Ho fatto un esperimento. Ho parlato a un mio amico – persona idealista e onesta, morale salda – di una storiaccia calabrese: un presunto affidamento fraudolento per la raccolta e il trasporto dei rifiuti ottenuto “sgattaiolando” alle procedure del codice degli appalti; due cooperative che avrebbero beneficiato di incarico diretto nonostante i difetti ai requisiti di legge. Immaginate la faccia, l’espressione integerrima.

Poi ho detto a questo amico che la storiaccia è una delle due che coinvolge Mimmo Lucano, sindaco di Riace e persona da entrambi stimata. I lineamenti che si curvano in maniera diversa, lo sguardo sorpreso e un po’ tradito. Da me, che gli ho tirato il tranello, mica dal sindaco. “Come no: ora il problema della Calabria è Mimmo Lucano!” Il suo sarcasmo a celare il fastidio.

Per il mio amico le manette di Riace stringono un fine chiaramente politico di una magistratura nettamente schierata. Un concetto che, tornando un po’ indietro e con le logiche differenze, somiglia allo stesso che Berlusconi per anni ha sostenuto e l’amico deriso. Adesso il suo punto di vista si capovolge: la “fiducia nella giustizia” diventa “giustizia a orologeria”, le toghe rosse si tingono di nero. Ma come. Magari ha ragione, però a me sembra un ragionamento fatto per “tifo”. L’Italia dai tanti problemi ha pochi minimi comuni denominatori e tra questi c’è la tendenza arzigogolata a curvare la realtà sempre dalla propria soggettiva ragione. Accade nel calcio come nella politica, coi pareri anche importanti che paiono opinioni del lunedì.

Alla manifestazione per Lucano di metà ottobre, per esempio, l’ex sindaco di Messina Renato Accorinti ha parlato di “una strategia di Salvini molto chiara” sebbene le indagini su Riace siano partite quando ancora la Lega era vassallo preelettorale del centrodestra; Alessia Stelitano, di Potere al popolo, ha detto chiaro e tondo che dietro l’arresto ci sarebbe l’interesse a “rimettere nelle mani delle mafie la gestione di milioni di euro”, come a sottintendere una magistratura subordinata alla criminalità per il tramite della politica. Questo Paese vive un continuo riciclo delle opinioni: per partito preso, si accetta ciò che prima si contrastava e si contrasta ciò che prima si accettava. C’è un terribile vuoto di coerenza, un bisogno gigante di oggettività.

Io spero – e lo dico con profonda sincerità – che Mimmo Lucano sia scagionato da ogni accusa; da quella di scorciatoie nell’ambito scivoloso dell’affidamento dei rifiuti e da quella di aver “architettato degli espedienti criminosi volti ad aggirare la disciplina prevista dalle norme nazionali per ottenere l’ingresso in Italia”. Lo spero per lui, persona che apprezzo a ogni intervista; lo spero perché Riace è modello di integrazione solo se è modello di legalità. I suoi tetti intagliati nella Calabria rappresentano per me l’unica possibilità sana per un mondo dove le distanze geografiche hanno perso senso e le voracità finanziarie mai avuto buonsenso. Credere in Riace è necessario, per tutti.

Ma un cittadino, soprattutto se “primo”, non può e non deve avere Dio all’infuori delle leggi. Ingiuste, contorte o “balorde” – come Lucano le definisce in un’intercettazione in cui pare organizzare matrimoni di comodo buoni solo per la cittadinanza – le leggi sono leggi. Possono essere democraticamente cambiate, ma mai aggirate. Nessuno ha il diritto di violarle in nome di un principio, pur quanto giusto e condivisibile, altrimenti lo stesso diritto a trasgredirle spetterebbe anche a chi crede con convinzione nei principi opposti. Se tu violi le regole per aiutare un migrante, io posso violarle per respingerlo: la fine.

No amico mio, il problema della Calabria non è Mimmo Lucano; ma il fatto che ci siano problemi maggiori non vuol dire che si debba chiudere un occhio per tutto il resto. Allora fiducia, anche stavolta, nella magistratura. O no?

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