Il colera è una malattia che, come altre originate da un agente infettivo, la peste o la malaria ad esempio, gode anche di una fama letteraria. Basta ricordare Morte a Venezia, capolavoro di Thomas Mann, che ebbe un’eccellente trasposizione cinematografica sotto la direzione di Luchino Visconti. Personalmente ricordo anche che nel mese di settembre 1973, ero all’Università, si verificarono una serie di focolai epidemici di colera (malattia quarantenaria) nell’Italia meridionale, che destarono un certo allarme. Si esaurirono comunque nel volgere di poche settimane.

Le principali occasioni di contagio erano rappresentate dal consumo delle famose “cozze” e degli ortaggi contaminati. I mitili venivano all’epoca spesso allevati in vicinanza degli scarichi fognari dei porti, in totale assenza di misure di depurazione. I molluschi sono dei filtri che setacciano l’acqua marina alla ricerca di nutrimento e se si trovano in acque non sicure igienicamente, concentrano agenti infettivi nelle loro carni. Gli ortaggi venivano in alcuni casi coltivati con acqua direttamente collegata con i sistemi di scarico di acque reflue. Si “sporcavano” quindi con materiali di origine fecale e in presenza di un’aumentata prevalenza del batterio (nel nostro caso Vibrio cholerae) potevano contribuire alla trasmissione della temibile malattia.

Da molti anni, salvo un focolaio pugliese del 1994, non abbiamo più avuto casi nella penisola. Forse il maggior controllo sui comportamenti dei singoli contadini e degli allevamenti di frutti di mare hanno determinato questo risultato. Certamente quello che non può accadere è una diffusione dell’infezione su scala epidemica. Per due ordini di ragioni: la presenza di una rete di strutture specialistiche sanitarie a indirizzo infettivologico assicurata dal Servizio Sanitario Nazionale, capillarmente diffuse sul territorio, perfettamente in grado di esercitare una continua  e assidua sorveglianza epidemiologica: riconoscendo i casi sospetti, isolandoli e prestando le migliori cure del caso ai malati e suggerendo le adeguate misure di igiene pubblica destinate a contenere i focolai e a estinguere le ragioni che possano in qualsiasi maniera favorire la diffusione del contagio. La seconda ragione è ovviamente il livello di crescita sociale e civile della popolazione e il benessere materiale che si riflette nella disponibilità di acqua potabile per tutti, garantendo contemporaneamente lo smaltimento delle acque reflue e la depurazione.

Il caso di Napoli, oggi agli onori delle cronache, è rappresentato da una mamma e da un bambino che hanno contratto il colera nel paese di origine, Bangladesh, e hanno sviluppato la sintomatologia al ritorno nel nostro paese. Sono stati prontamente assistiti e vengono attualmente curati, penso per il meglio. Devono essere soprattutto reidratati e controllati clinicamente per evitare squilibri metabolici e assumere antibiotici efficaci. Bene, allora non diffonderanno la malattia da noi, perché appunto il sistema è sano e funziona per quello che deve. Non l’avrebbero comunque diffusa ugualmente, ne sono certo, per i motivi che ho detto precedentemente. E allora perché aizzare l’opinione pubblica in maniera scomposta e ignorante contro persone che hanno solo bisogno di essere assistite e curate e che vivono pacificamente in Italia? Non aggiungo altro.

Ma perché hanno preso il colera nella terra di origine? Perché purtroppo nel corso dell’estate i cieli del Golfo del Bengala si gonfiano sotto il monsone e scaricano inverosimili quantità di acqua su territori molto bassi al limite dell’Oceano Indiano. Non ci sono servizi igienici all’altezza in tutte le abitazioni e nelle strade allagate galleggia ogni genere di escremento. Bastano pochi casi e la malattia si sviluppa incontrollata. Ben diverso che da noi, penso? O no?

A proposito c’è un vaccino che dà una discreta protezione, assumibile per via orale, chi si reca in paesi a rischio fa bene a immunizzarsi.

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