Tennis, TV, trigonometria e tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), di David Foster Wallace (traduzione di Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa) e The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, di Mark Fisher (traduzione di Vincenzo Perna), entrambi pubblicati da Minimum Fax, sono due testi difficilmente collocabili in una categoria, narrativa o metanarrativa. Due testi originali e pieni di spunti, che spaziano a trecensosessanta gradi nell’arte, nella musica, nello sport e nel vivere quotidiano.

Ultimo libro pubblicato in vita dal critico culturale Mark Fisher, The Weird and the Eerie ricorda, per certi aspetti di linguaggio e ricerca, i lavori più estremi di Leslie Fielder e Slavoj Žižek. Il testo analizza i termini Weird (strano) e Erie (inquietante) – anche se, in realtà, sono parole difficilmente traducibili in italiano – che indicano l’ossessione per tutto ciò che è fuori dalla norma e che è reputato come inconsueto. In un viaggio che fa tappa nella cinematografia e nella narrativa fantasy e horror, nei racconti di H.P. Lovecraft, nelle canzoni dei Fall, nei romanzi di Philip Dick, nei film di David Lynch, nei processi creativi di Margaret Atwood, Brian Eno, Stanley Kubrick e Christopher Nolan, concretezza e ignoto trovano una loro particolare sinergia.

Una cooperazione molto spesso non tollerata dall’opinione pubblica che porta inevitabilmente alla dissoluzione della linea di confine tra alto e basso nelle forme artistiche. Lo stesso autore, nell’introduzione, scrive: “Non intendo certo affermare qui che ciò che sta al di fuori sia sempre benevolo. L’esterno ci mette a disposizione un’abbondante dose di terrori. Ma questi terrori non esauriscono tutto ciò che c’è da dire sull’esterno”.

Lui stesso un tennista a livelli agonistici, David Foster Wallace ha sempre visto in questo sport una perfetta metafora della spietata competizione sociale che ha portato la civiltà a quello che è diventata. Quelli raccolti in Tennis, TV, trigonometria e tornado sono reportage divertenti dove l’autore miscela ricordi della sua carriera con gli Open Canadesi di tennis, i venti del Midwest con il rapporto uomo-televisione, la morte d’autore con l’immaginario di David Lynch (personaggio reale che crea un’affinità non voluta con il testo di Mark Fisher), il tennista Michael Joyce con la Fiera Statale dell’Illinois e Don DeLillo.

Critico e sagace, David Foster Wallace porta il lettore attraverso un caleidoscopio postmoderno dove galline e campi sterminati di granoturco possono diventare letteratura quanto uno studente dalla mente geometrica che da grande, forse, avrebbe voluto semplicemente colpire una pallina con una racchetta: “Il mio flirt con l’eccellenza tennistica ebbe molto più a che fare con la zona dove prendevo lezioni e mi allenavo e con una strana propensione per la matematica intuitiva che con il talento atletico. Ero, anche per gli standard dell’agonismo juniores, quando ognuno non è che un bocciolo di potenziale puro, un giocatore di tennis piuttosto privo di talento. La mia visione di gioco andava bene, ma non ero né robusto né veloce, avevo un torace quasi concavo e dei polsi così sottili che li potevo stringere tra pollice e mignolo, e riuscivo a colpire una palla da tennis con una potenza o precisione non maggiore di quella di quasi tutte le ragazze della mia fascia d’età.”

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