Parliamo di narrazioni. Narrazioni sbagliate, degradanti. Come quelle che si fanno in questo paese contro migranti, persone Lgbt e donne. Non è un caso che io abbia citato tutte queste categorie insieme. Creato il prototipo di umanità perfetta – quella che prevede lo status di maschio, bianco, eterosessuale e cristiano (possibilmente borghese, magari) – tutto ciò che fuoriesce da tale paradigma può essere bistrattato. In vario modo: dalla mancata estensione dei diritti, all’uso di una narrazione (appunto) che svaluta, demonizza, rende meno “umani”. E che quindi, disumanizza.

Raccontare gli altri significa costruire significati attorno ad essi. Se uso “migrante” come sinonimo di criminale, se uso quella parola come uno strumento per creare paura e diffidenza sociale, sto mandando a dire alla famosa casalinga di Voghera e al meno conosciuto idraulico di Priolo Gargallo che se si trovano di fronte ad un appartenente a quella categoria umana, devono averne timore. Conferisco un nuovo significato a una parola che dovrebbe averne un altro: “persona che migra”, che va da un posto a un altro. Il governo del cambiamento è maestro, in questi scivoloni semantici.

Ed è quello che è successo, di recente, in almeno due occasioni relativamente al discorso sulla narrazione del femminile. Prendiamo quanto accaduto nella casa più famosa d’Italia, quella de Il Grande Fratello Vip. In cui un concorrente, Ivan Cattaneo, ha detto testualmente che «rifiutare una donna è peggio che violentarla». Richiamato sull’enormità dell’affermazione, il cantante l’ha rilanciata motivandola così: nello stupro la donna si sente «oggetto del desiderio». Un concentrato di follia argomentativa tale che non ha bisogno di commenti.

Che la donna sia ridotta a “oggetto” e che la violenza fisica e sessuale si confonda col desiderio rientra in un immaginario che nella nostra cultura è stato ampiamente sdoganato, dallo show business alla politica stessa. Ricordiamo ancora Salvini che, per attaccare Laura Boldrini ad un evento della Lega, portò con sé una bambola gonfiabile. Donna come oggetto, appunto. Non destinataria di una critica politica, ché nessuno ne è esente, ma ridotta a strumento sessuale.

E ancora, la sessualità proposta attraverso le grammatiche della violenza la ritroviamo in copertina, su Libero. Si parla di Maurizio Zanfanti, playboy di Rimini. Morto mentre faceva sesso con una donna molto più giovane di lui. «Un infarto l’ha fregato mentre castigava una 23enne» si legge nel sottotitolo. Non conosciamo la natura del rapporto che legava quell’uomo con la ragazza. C’è da dubitare che ne fosse a conoscenza il titolista del giornale in questione. Evidentemente, per questo signore fare sesso o fare l’amore ha a che fare con la categoria del castigo. Massima solidarietà alla sua signora, se ne ha una. È il caso di dirlo.

Questi due episodi, degradanti, non sono casuali. Sono il riflesso di una sub-cultura millenaria che crea, come detto in apertura, graduatorie di umanità. Alcune da privilegiare, altre da svilire. Per mantenere i soliti squilibri di potere a vantaggio di alcuni, contro tutto il resto. E questo è un fenomeno di lungo periodo. Poi c’è il presente. Quello in cui si raccontano gli altri e, soprattutto, le altre in modo tale da fornire un immaginario, una comfort zone nel quale incasellare categorie specifiche.

In questi giorni è toccato alle donne. Poi ricominceranno con gay, migranti e tutto il resto della ciurma. Direi che è arrivata l’ora di smetterla, una volta per tutte. Sappiamo chi sono i responsabili culturali del “qui e ora”. E non ci sono giustificazioni di sorta. C’è solo la volontà di proseguire per questa strada oppure cambiare le cose. E al momento della resa dei conti – che prima o poi verrà, come sempre avviene dopo i periodi bui come quello in cui stiamo vivendo – sapremo a quali indirizzi bussare. Che siano quelli di partiti specifici o i siti di questo o quel giornale.

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