Il Senato ha da poco approvato, praticamente all’unanimità, un nuovo disegno di legge sulla sicurezza stradale. Dal primo luglio del 2019, infatti le auto che trasportano bambini fino a quattro anni d’età dovranno essere equipaggiate con un dispositivo elettronico (seggiolino anti-abbandono) che avvisa della loro presenza a bordo. Indubbiamente un importante passo avanti per quanto riguarda la sicurezza e la tutela dei più piccoli, visti i recenti e numerosi casi di bimbi morti, dimenticati in auto dai loro genitori. Ma decisamente un passo indietro sulla via per la creazione di una società sana.

Siamo in grado di ricordare dieci password diverse tra bancomat, email, profili social, conto corrente on-line, blocco del telefono e via dicendo, ma rischiamo di dimenticare che la mattina, dopo averlo svegliato, lavato e cambiato, dopo aver fatto colazione insieme e avergli preparato lo zainetto con la merenda, abbiamo messo nostro figlio sul seggiolino della macchina per portarlo a scuola, prima di andare a lavoro. Probabilmente lungo il tragitto è arrivata una telefonata importante, una delle tante beghe di lavoro da risolvere, una risposta che attendevamo da tempo o semplicemente un’amica che ci chiede di uscire nel weekend.

E così ci siamo distratti, pressati dallo stress quotidiano e anziché passare prima a scuola, siamo corsi a lavoro, abbiamo parcheggiato, siamo entrati in ufficio e, come ogni giorno siamo andati verso la macchinetta del caffè perché senza non riusciamo a cominciare la giornata. A scuola non siamo mai andati. La chiamano amnesia dissociativa, il male dei nostri frenetici e snervanti giorni che, solo in Italia negli ultimi dieci anni, ha causato la morte di otto bambini, mentre sarebbero circa 600 in tutto il mondo i bimbi morti per essere stati abbandonati in macchina, negli ultimi vent’anni.

Dati sconcertanti che evidenziano quanto malata sia la nostra società, citando il filosofo Erich Fromm “una società sana è quella che corrisponde ai bisogni dell’uomo, non necessariamente a quelli che egli sente essere i suoi bisogni, perché anche le aspirazioni più patologiche possono essere sentite soggettivamente come quelle che un individuo maggiormente desidera, ma a quelli che sono obiettivamente i suoi bisogni, cioè quelli che corrispondono meglio alla natura dell’uomo” . E probabilmente, sono le cosiddette aspirazioni patologiche di cui parla Fromm ad averci spinto in una spirale di nevrosi collettiva che investe ogni settore e ogni ceto sociale. Tutto subito e soprattutto ad ogni costo, l’invidia sociale diffusa che genera odio e individualità, l’intolleranza verso chi è diverso, supportata da una insana convinzione di essere automaticamente superiori o migliori, la frustrazione interiore che invece deve essere soffocata ad ogni costo per non soccombere, la pressione sociale dell’apparire, del sembrare piuttosto che essere.

Apparteniamo a mille gruppi, a comitati, a partiti, a congregazioni ma non apparteniamo davvero a noi stessi. Siamo di chi vuole che siamo in quel modo, con quel vestito, con quella macchina, in quella chiesa, in quella vita. Non dobbiamo stupirci se capita raramente di dimenticare il telefonino, la connessione col mondo, quel mondo di cui è così fondamentale far parte, ma abbiamo bisogno che un dispositivo elettronico ci ricordi che i nostri figli sono in quella dannata macchina con noi. Al di là dei facili moralismi, abbiamo completamente perso di vista le cose davvero importanti, a cominciare da noi stessi. Chi ne pagherà le conseguenze saranno inevitabilmente i nostri figli. Alcuni purtroppo hanno già pagato.

Articolo Precedente

“Sono uno chef, ho la Sla e ho detto di no a Obama. Con la cucina molecolare ho ridato ai malati i sapori dei cibi”

next
Articolo Successivo

I parrocchetti del progressismo

next