Uno degli spettacoli più stomachevoli del nostro tempo è quello messo in scena dai parrocchetti del progressismo, patetiche creaturine senz’arte – ma con una parte, che si aggirano come pesci spazzini nella sfera mediatica, pascendosi di ogni tipo di immondizia e trasformando in immondizia tutto ciò che ancora non è tale. Infatti, ancorché essi vengano definiti in modi diversi (in genere con l’ardito quanto improprio sintagma: “intellettuali progressisti”), il loro mestiere è quello di inquinare il pensiero collettivo, nell’immondare qualsiasi afflato d’intelletto che possa fluttuare al di fuori della bara ermetica (ed emetica) di quello Zeitgeist miserello che è il pensiero dominante, ovvero il pensiero dei “dominanti”.

Codesti esserini, frenetici ed emaciati, si sono autodefiniti “intellettuali”, ossimorica fattispecie, dato il significato del termine “intelletto”, che deriva da intus-legere: “guardare dentro”, ovvero penetrare nella profondità di ciò che si cela dietro l’apparenza fenomenica per invenire rectificando occultam lapidem (come dicevano gli alchimisti). I nostri, viceversa sono tutt’altro che dotati di sguardo penetrante e, d’altra parte, non saprebbero che farsene: non devono comprendere, tantomeno interpretare. Sono semplici specchi che devono riflettere la volontà di Elysium: cantori dell’omodossia, “clero secolare” (Costanzo Preve) dei “potere”. Come garzoni di bottega, troppo sgraziati per diventar maestri, pittano banali tromp d’oeil copiando le immagini che i loro committenti vogliono spacciare per realtà, allo scopo di ricoprire tutte le pareti della caverna nella quale si svolge la vita collettiva. Non un centimetro deve rimanere scoperto, onde evitare che qualcuno possa scorgere che quello che si  vede non è un mondo, ma un fantasma di mondo, inverato solo nelle allucinazioni costruite dal reiterante vocio di cotesti cantori della falsità.

Costoro sono apodittici: il loro mondo è fatto di menzogne senza sfumature, di dogmi senza ermeneutica, di assoluti contrapposti, propalati gaglioffeggiando con l’emotivismo etico del desiderio.

Il perenne sguazzare in fondali torbidi di menzogne rende loro impossibile vedere al di là di questa realtà fantasma della quale si pascono con voluttà: il mondo che creano diventa il loro mondo, quel recinto lisergico che viene chiamato “cultura”; la loro protervia viene spacciata per sapienza dalla pervasiva sinfonia di quel coro di mille voci che viene chiamato “informazione”.

L’obbedienza li costringe all’apodissi cui abbiamo accennato: non è consentito il minimo tentennamento quando si parla con la voce del padrone, e l’apodissi li rende accaniti, un accanimento puerile e livoroso, poiché ogni contraddizione può sgretolare il loro mondo e i ego miserelli, che nulla più di quel mondo vedono. Il loro motto è: “Io nuoto nella melma del fondo e nessuno deve poter alzare lo sguardo al di sopra di questa melma, perché questa melma è il mondo, e non esiste altra realtà al di fuori di questa”.

Così, quel torbido liquame di materia putrescente costituisce il loro orizzonte degli eventi, quella Weltanschauung accattona che li spinge ad abbracciare qualsivoglia corbelleria dell’oggi pur di stigmatizzar lo ieri ed impedire un diverso domani: dall’etica del “transgender”, all’ermeneutica del post-umano, dall’epistemologia dell’intelligenza artificiale, alla filologia del postmoderno.  Basta che vi sia un significante vuoto che loro si precipitano ad ingozzarvisi con voluttà.

Spregiano ogni pensiero, ogni afflato di quell’intelletto col quale si sono nominati, rigettano finanche la più banale ragione, facendo strame d’ogni logica. Alla stregua di pappagallini o merli indiani riverberano, con le loro vocette stridule ogni sciocchezza  caldeggiata da coloro che traggono aggio nel confezionare lo spirito del tempo e, con quel cacofonico coro impregnano ogni recesso di quella che Walter Lippmann definì “opinione pubblica”.

Un moderno Leporello potrebbe fare un puntuale catalogo di cotesti esserini:

Madamina il catalogo è questo:
Dei galioffi che aman servir
Un catalogo ancor da finire
Disprezzate e ridete con me
“V’han fra questi romanzieri,
saggiatori, gazzettieri
V’han filosofi, cantanti,
satiristi e sicofanti
E v’han servi d’ogni grado
D’ogni forma, d’ogni età

Non si piccan se son schiavi
Perché il giogo è il loro ambire
Purchè sappian chi servire
Voi sapete quel che fan

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