Anche gli americani imparano dai francesi a fare sistema e noi No. E così un altro gioiello del made in Italy se lo accaparrano gli americani. La Medusa e i suoi tentacoli tirano negli States. Prima di Michael Kors anche i due colossi francesi del lusso, Lvmh e Kering, avevano annusato la Medusa ma per loro il prezzo era troppo alto. Non per Kors anche se la sua maxivalutazione da circa 2 miliardi di dollari non è stata premiata da Wall Street che fa scivolare il titolo di un 7%.

Sembra di giocare a Monopoli, mentre Salvini sbraita contro la “colonizzazione” del made in Italy. Ecco le nostre pedine di lusso che hanno già traslocato: la pioniera è stata Fendi ( nel 1999), seguita da Emilio Pucci e Loro Piana finite nel forziere di Lvmh. Mentre Gucci, Brioni, il marchio del lusso maschile celebre per aver vestito James Bond, e poi ancora Sergio Rossi, Bottega Veneta, Pomellato e le ceramiche Richard Ginori ruotano nell’orbita della multinazionale, la Kering, che fa capo a Francois Pinault. Il mercato esulta con Gucci, lo storico marchio fiorentino fondato nel 1921,che ha fatto il botto in borsa con un balzo del 10% e aumento del fatturato del 50%, passando da circa 850 milioni a 1,5 miliardi di vendite. E ultimo colpo incassato Gucci all’ultima fashion week non ha più sfilato a Milano ma ha preferito Parigi.

Guardando a Est, Valentino vola in Qatar, ma non sempre la “cannibalizzazione” premia: Krizia passata ai cinesi è stata poi rivenduta, Gianfranco Ferrè comprata dagli arabi ha chiuso. Missoni arriva alla terza generazione ma cede una quota di minoranza al Fondo strategico italiano (Fsi). Voci allarmanti anche per Trussardi dopo che Gaia Trussardi ha lasciato la direzione artistica. Secondo i dati raccolti dalla Camera nazionale della moda italiana (Cnmi), gli ultimi due anni sono stati positivi, con un aumento di fatturato iniziato nel 2016 che si aggira intorno ai 66 miliardi e la moda italiana vale oggi il 4% del pil.

A quelli che rimangono “impermeabili” alle sirene dei capitali stranieri ( Armani, Prada, Dolce & Gabbana in testa, seguiti da Alberta Ferretti, Zegna, Etro, Ermanno Scervino, Brunello Cucinelli, Les Copains… ) tenete duro. Già nel 2014 il fondo statunitense Blackstone aveva rilevato un 20% della Versace ma i suoi utili non sono stati soddisfacenti. Adesso ci prova Michael, battendo sul filo di lana l’altro colosso della moda made in Usa, Tapestry, in corsa fino all’ultimo.

Rimane una domanda agli osservatori del made in Italy: perché noi non riusciamo a fare “sistema” e ci lasciamo “scippare” dagli altri pezzo dopo pezzo? Michael prima di vestire Michelle Obama e Jennifer Lopez aveva cominciato con la pelletteria, facendo borse di target medio (sui 200 euro), ha superato momenti di crisi, e oggi ha un giro d’affari consolidato di 4,72 miliardi di dollari con un utile di 591 milioni (più 7,1%: praticamente, quello che ha perso ieri in borsa). E’ riuscito perfino ad offuscare l’altra stella americana, Ralph Lauren, che a Milano ha chiuso il suo palazzotto a tre piani di via Montenapoleone e lì ha invece aperto Dolce & Gabbana.

Michael l’anno scorso aveva già incominciato a realizzare il suo sogno di agglomerato del lusso, comprando per un miliardo di dollari (all’incirca) la Jimmy Choo, brand di scarpe sexy/chic dal tacco vertiginoso reso celebre dalla serie televisiva “Sexy and the city” . Michael è sensibile alla ribalta televisiva visto anche il successo planetario su Netflix di Versace a puntate.
Donatella, che è stata l’anima creativa negli ultimi 20 anni malgrado il gruppo sia andato molto molto in sofferenza dalla morte di Gianni, rimane con una quota di minoranza, ma non si capisce ben in quale veste, il comunicato ufficiale informa “guiderà la visione creativa dell’azienda”. Lei spera come cane da guardia per non vedere la sua creatura de luxury abbassarsi troppo di target. Ma non sempre cane che abbaia morde.

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